Confermato anche da un altro studio: la situazione di Fukushima è di gran lunga più grave rispetto a quella di Chernobyl. I materiali radioattivi sono il doppio rispetto a quelli stimati inizialmente
Fukushima peggio di Chernobyl. Lo sapevamo già. Qualche mese fa il quotidiano sulla base della nuova mappa sulla radioattività presentata nel recente incontro al ministero della Scienza aveva annunciato la triste verità, rilevando in alcuni centri 1,48 milioni becquerel per metro quadro di cesio 137, la soglia di riferimento seguita per affrontare l’emergenza di Chernobyl. Anche varie lo avevano già sospettato, e oggi a conferma di ciò è giunto un altro studio, pubblicato sulla rivista Atmospheric Chemistry and Physics, e realizzato da un team di studiosi norvegesi coordinati da Andreas Stohl del Norwegian Institute for Air Research.
Secondo quanto si legge in un comunicato del Norwegian Institute for Air Research, i risultati dello studio dimostrerebbero che le situazione in Giappone è ben più grave di quanto previsto inizialmente.
Gli esperti non hanno dubbi. Dopo aver esaminato decine di stazioni di monitoraggio delle radiazioni in tutto il mondo grazie alla collaborazione dei colleghi dell’Institute for Meteorology of the University of Natural Resources and Life Sciences (BOKU-Met) di Vienna, dell’Austrian Central Institute for Meteorology and Geodynamics (ZAMG) di Vienna, dell’Institute of Energy Technologies from the Technical University of Catalonia di Barcelona (INTE) e dall’Universities Space Research Association, gli studiosi hanno notato la presenza di 1,7 moltiplicato per 1019 becquerel di Xenio 133, ben oltre la soglia già raggiunta a Chernobyl. Si tratta del più grande rilascio civile di gas nobile della storia.
Lo Xenio 133 non è né ingerito né trattenuto nel processo di inalazione e quindi al momento non desta preoccupazione per la salute, ma è utile per comprendere le conseguenze legate all’incidente della centrale di Fukushima.
Diversa la situazione del Cesio-137, che è di grande rilevanza per la salute umana anche per la lunga emivita, che arriva anche fino a 30 anni. Ed ecco cosa ha rivelato il nuovo studio: le emissioni di quest’ultima sostanza sono iniziate prima e si sono concluse più tardi di quanto previsto nella maggior parte degli studi effettuati fino ad ora. Il 19% del cesio è stato depositato sul territorio giapponese, mentre circa l’80% è finito in acqua.
Gli studiosi norvegesi sostengono inoltre che le stime effettuate dagli esperti giapponesi subito dopo il disastro sono fallaci visto che molte stazioni di rilevamento quel giorno di marzo, non potevano dare risultati veri perché private della loro efficienza dalle stesse radiazioni. Andreas Stohl sostiene inoltre che il giorno dell’incidente i danni furono comunque limitati dalla presenza del vento, che ha evitato che grossi quantitativi di sostanze radioattive finissero direttamente in mare.
Francesca Mancuso