Più distruggiamo le foreste più rischiamo nuove pandemie: ecco la mappa delle zone in allarme

Continuando a distruggere le foreste altre pandemie ci colpiranno. Ecco dove altri pericoli si stanno facendo strada per colpa nostra

Continuando a distruggere le foreste altre pandemie ci colpiranno. Un nuovo studio, guidato dal nostro Politecnico di Milano, indica che la trasmissione dei coronavirus dai pipistrelli all’uomo è più facile dove le foreste vengono distrutte per fare spazio agli allevamenti. Ecco dove altri pericoli si stanno facendo strada per colpa nostra.

Non è di certo, purtroppo, il primo allarme. Da molti anni gli scienziati sostengono che le foreste sono il nostro antivirus e che lo stiamo distruggendo, danneggiando noi stessi. Un rapporto del WWF dello scorso anno, in piena pandemia di SARS-CoV-2, aveva mostrato che molte delle malattie emergenti sono conseguenza di comportamenti umani errati, tra cui la deforestazione, il commercio illegale e incontrollato di specie selvatiche e il nostro impatto sugli ecosistemi.

Stiamo distruggendo i nostri antivirus

Distruggere le foreste, infatti, è distruggere il cibo e la casa di moltissime specie che all’improvviso si trovano sole e “denutrite”. E che, soprattutto, si trovano a contatto all’improvviso con una specie a loro sconosciuta, l’uomo, con la quale quindi non esiste alcuna strategia di convivenza pacifica, perché la natura non ne aveva previsti.

Con risultati imprevedibili e a volte disastrosi, incluse pandemie globali come quella purtroppo ancora in corso. Lo spillover, ovvero il salto di specie, il meccanismo biologico con il quale il virus sarebbe mutato riuscendo a replicarsi nella cellula umana, infettandola, potrebbe essere uno di questi.

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Ma a nulla valgono le allerte, gli allarmi, gli avvertimenti. Oggi l’ennesima ricerca ha individuato dove stiamo creando le condizioni per altri disastri sanitari (ed economici).

deforestazione pandemie coronavirus zone a rischio

©Nature Food

Ecco dove stiamo creando le condizioni per nuove pandemie

Il nostro lavoro – spiega all’Ansa Maria Cristina Rulli, prima autrice del lavoro – è stato quello di cercare gli hotspot, ossia i luoghi con le caratteristiche più a rischio, in cui si potrebbero verificare eventuali spillover, il cosiddetto salto di specie, di altri coronavirus tipici dei pipistrelli verso l’uomo.

I ricercatori hanno analizzato in particolare set di dati completi e ad alta risoluzione sulla copertura forestale, la distribuzione dei terreni coltivati, la densità del bestiame, la popolazione umana, gli insediamenti umani, la distribuzione delle specie di pipistrelli e i cambiamenti nell’uso del suolo nelle regioni popolate da pipistrelli ferro di cavallo asiatici (come scientifico: Rhinolophus ferrumequinum) su una superficie superiore a 28,5 milioni  chilometri quadrati. Tale specie, infatti, è la più comune portatrice di coronavirus correlati alla sindrome respiratoria acuta grave (SARS).

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©Nature Food

Lo studio ha identificato le aree a rischio di epidemie di coronavirus legate alla SARS, soprattutto in Cina, Indocina e Thailandia, dimostrando che quelle popolate da pipistrelli ferro di cavallo mostrano una maggiore frammentazione delle foreste e concentrazioni di bestiame ed esseri umani superiori rispetto ad altri Paesi.

I nostri risultati indicano che le interazioni uomo-bestiame-fauna selvatica in Cina possono formare hotspot con il potenziale per aumentare la trasmissione del coronavirus correlata alla SARS dagli animali all’uomo affermano gli scienziati.

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Cosa possiamo, anzi, dobbiamo fare

La ricerca indica chiaramente alcune zone a rischio, sulle quali sarà necessario vigilare.

Con questo tipo di dati sono possibili due azioni – spiega la Rulli – Da un lato guidare le autorità a un maggiore controllo dei punti pericolosi e introdurre politiche più sostenibili, con un migliore equilibrio tra le attività umane e le foreste, dall’altro agire per tempo nelle zone con un rischio ancora basso ma in cui i fattori di pericolo potrebbero presumibilmente aumentare.

Sarà fatto?

Il lavoro è stato pubblicato su Nature Food.

Fonti di riferimento: Ansa /  Nature Food

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