Ecco come la diga italiana costruita in Etiopia ha annientato gli indigeni

Ricordate la diga italiana costruita in Etiopia? Purtroppo quello che si temeva, e che diverse associazioni denunciavano da anni, è realtà. Gli indigeni hanno subito pesanti conseguenze e ora devono fare i conti con povertà, fame, conflitti e violazioni dei diritti umani. La conferma arriva da un nuovo report.

Ricordate la diga italiana costruita in Etiopia? Purtroppo quello che si temeva, e che diverse associazioni denunciavano da anni, è realtà. Gli indigeni hanno subito pesanti conseguenze e ora devono fare i conti con povertà, fame, conflitti e violazioni dei diritti umani. La conferma arriva da un nuovo report.

La diga nel sud dell’Etiopia è stata costruita per fornire elettricità alle città e controllare il flusso di acqua utile ad irrigare i campi agricoli industriali. A che prezzo però? Molto caro, e non stiamo parlando in termini economici ma piuttosto umani ed ambientali.

Per anni Survival, movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, (e non solo) ha denunciato i devastanti effetti che avrebbe avuto la costruzione di questa diga Made in Italy in particolare sulle popolazioni locali che dipendono dal fiume.

La costruzione, infatti, ha portato alla perdita dei mezzi di sostentamento per le popolazioni indigene della zona e le ha costrette a vivere da sedentarie in fattorie portandole a soffrire fame e conflitti, continuamente alle prese con la violazione dei diritti umani.

Questi sostanzialmente i risultati di un nuovo rapporto dell’Oakland Insitute relativo agli effetti che la diga Gibe III, ormai completata sull’Lower Omo River, ha avuto sugli indigeni. Come ha dichiarato Anuradha Mittal, direttore dell’Oakland Institute:

“Per i popoli indigeni, a riempire il vuoto ci hanno pensato una serie di problemi, tra cui fame, povertà, conflitti e abusi dei diritti umani.”

Lo studio “Come ci hanno ingannato: vivere con la diga di Gibe III e le piantagioni di canna da zucchero nell’Etiopia sudoccidentale” si basa su oltre un decennio di ricerche di background e interviste ad esponenti delle tribù indigene, realizzate tra il 2017 e il 2018, per comprendere l’impatto che ha avuto su di loro la diga ma anche iniziative agricole come il Kuraz Sugar Development Project.

Vaste porzioni di terra, infatti, sono state trasformate in enormi piantagioni industriali di cotone ma soprattutto canna da zucchero da esportazione.

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La diga impedisce la piena del fiume e le esondazioni stagionali grazie alle quali gli indigeni della valle dell’Omo riuscivano a sostenersi, abbeverando il bestiame e coltivando i campi a mais e sorgo. Proprio grazie al fiume, le tribù, riuscivano a sopravvivere al clima ostile e arido della zona.

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I loro metodi di sussistenza, però, parte della loro cultura da secoli, sono stati drammaticamente bloccati dalla costruzione della diga idroelettrica a partire dal 2006, questa infatti controlla il flusso del fiume in modo da irrigare i campi di canna da zucchero.

Secondo il rapporto dell’Oakland Institute, sono soprattutto 3 gruppi indigeni ad essere seriamente in pericolo ed emarginati: i Bodi, i Mursi e i Kwegu.

Il governo aveva promesso di rilasciare periodicamente acqua dalla diga in inondazioni controllate per simulare la naturale espansione del fiume da cui dipendono tutti e tre i gruppi per le loro colture e per le erbe che alimentano il bestiame di Bodi e Mursi e le capre dei Kwegu. Ma la ricerca del team, corroborata da indagini di altre organizzazioni, ha rivelato che le alluvioni controllate non sono mai avvenute.

Le testimonianze degli indigeni

Bibala, un membro della comunità Mursi, ha dichiarato che prima della costruzione della diga “la terra era piena di grano“: 

“Abbiamo avuto un sacco di acqua alluvionale nel fiume Omo e siamo stati molto felici. Ora l’acqua è sparita e siamo tutti affamati. Dopo ci sarà la morte”

La soluzione, delle precedenti amministrazioni, era quella di far spostare questi gruppi semi-nomadi in villaggi permanenti. Molti membri dei gruppi però hanno resistito, non volendo cambiare (giustamente) le proprie abitudini culturali.

Come ha dichiarato un indigeno Mursi:

“Il governo ci ha detto di trasferirci nei siti di reinsediamento. Sia i Mursi che i Bodi odiavano questi luoghi e li hanno lasciati. Non vogliono stare nei siti di reinsediamento. Hanno chiesto al governo di portargli del grano. ‘Che cosa? Non vi piacciono i siti di reinsediamento? Non vi piace andare a scuola? Non si ottiene alcun grano’  ha detto il governo. Il governo lo ha ripetuto molte volte e ora ci ha lasciato senza grano”.

Davvero la nuova amministrazione dell’Etiopia si occuperà di restituire la dignità, oltre che le proprie terre e il fiume, a queste popolazioni allo stremo?

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Francesca Biagioli
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