A 35 anni dal disastro di Chernobyl, in Italia la partita sui rifiuti nucleari è ancora tutta da giocare

A 35 anni dal disastro di Chernobyl, qui in Italia si chiede a gran voce di chiudere in sicurezza con il nucleare e la sua pericolosa eredità

A 35 anni dal disastro di Chernobyl, qui in Italia un monito si fa sempre più urgente: chiudere in sicurezza con il nucleare e la sua pericolosa eredità. Per farlo è necessario individuare al più presto un deposito unico di rifiuti nucleari. Che nessuno vuole.

Più di 80mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività provenienti dal settore civile e soprattutto da quello medico e ospedaliero, come le sostanze radioattive usate per la diagnosi clinica (per le terapie anti-tumorali, per esempio): sono le cosiddette “scorie nucleari”, che solo a dirlo un po’ incute timore. Per loro c’è bisogno di un luogo sicuro e per individuarlo si deve passare attraverso l’ultima parola dei cittadini. Che non sono d’accordo.

Ad oggi, i rifiuti nucleari si trovano in depositi ritenuti insicuri e pericolosi e spesso a rischio idrogeologico e oggetto molte volte anche di traffici illeciti. È per questo che su più fronti la convinzione è una sola: creare una area ah hoc di circa 150 ettari e un deposito che avrebbe sostanzialmente una struttura a matrioska. All’interno di 90 costruzioni in calcestruzzo armato, dette celle, verrebbero collocati contenitori in calcestruzzo speciale, i moduli, che racchiuderebbero a loro volta i contenitori metallici con i rifiuti radioattivi già condizionati.

Leggi anche: Deposito nazionale rifiuti radioattivi: i criteri usati per scegliere i luoghi idonei

Lo scorso gennaio è stata pubblicata la CNAPI, la Carta nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico elaborata da Sogin (ricordiamolo: il deposito è progettato per contenere rifiuti a bassa e media attività, mentre per quelli ad alta si è in attesa di un deposito geologico internazionale), rimasta secretata per sei anni. Sei anni che hanno visto – tra l’altro – l’avvicendamento di tre governi.

Tutto regolare? Non esattamente. Nessuno vuole avere sotto il naso un sito che ospiti rifiuti radioattivi. Già i sindaci espressero allora il loro forte dissenso e ora anche ai cittadini sono scesi in campo per ribadire il loro fermo no al deposito. Tanti sono i ricorsi al TAR dei singoli Comuni, le petizioni e le raccolte di firme lanciate nel nostro Paese.

Tutto ciò al netto di una serie di dubbi e di criticità usciti dai primi approfondimenti sulla Cnapi fatti da Legambiente: dal rischio idrogeologico a quello di un probabile incidente rilevante, dalla contemplazione delle aree protette all’adozione di criteri più chiari e trasparenti.

Di cosa si parla? I numeri delle scorie nucleari in Italia

Secondo gli ultimi dati aggiornati a dicembre 2019 dell’Isin, Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, in Italia ci sono poco meno di 31mila metri cubi di materiale radioattivo (2,9 milioni di Giga-Becquerel, unità di misura che esprime la “carica” dei rifiuti radioattivi). Da dove arriva?

In parte dalla necessità di smaltire ancora i rifiuti radioattivi prodotti dalle vecchie centrali e, per la maggior percentuale, dal sempre più diffuso impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti nelle applicazioni mediche, nell’industria e nella ricerca. La nuova classificazione prevede la loro suddivisione in 5 classi, in base alla radioattività e al tipo di deposito necessario al loro stoccaggio, temporaneo o definitivo:

  • rifiuti radioattivi a vita media molto breve
  • ad attività molto bassa
  • di bassa attività
  • di media attività
  • di alta attività, che sono invece da destinare a un deposito geologico ancora da individuare in Europa

I nostri rifiuti radioattivi si trovano ad oggi in 24 impianti (tra cui le quattro ex centrali nucleari e i due centri di ritrattamento dei combustibili irraggiati di Saluggia e di Rotondella) in 8 regioni(Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia), cui si aggiungono 95 strutture che utilizzano “sorgenti di radiazioni”, ossia materie radioattive e macchine generatrici di radiazioni ionizzanti. Molte di queste strutture temporanee hanno molti punti critici in fatto di impianti e di localizzazione, che le rendono inidonee e pericolose nella gestione dei rifiuti radioattivi. Da qui la necessità di un deposito nazionale unico.

I dubbi e le criticità nell’applicazione dei criteri  per la localizzazione del deposito unico nazionale

Li mette in campo Legambiente, che da sempre sostiene la necessità urgente di trovate una collocazione definitiva alle scorie nucleari. Ma dal rischio idrogeologico a quello di incidente rilevante, dalla contemplazione delle aree protette all’adozione di criteri più chiari e trasparenti, secondo l’Associazione sono diversi gli elementi da considerare ancora più attentamente nel percorso verso la realizzazione del deposito nazionale.

Le aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito sono state individuate adottando criteri omogenei sull’intero territorio nazionale e con una procedura che prevede approfondimenti in una fase successiva, con analisi più dettagliate nei soli siti effettivamente interessatispiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente. Pur essendo comprensibile il principio, alcuni aspetti di carattere generale sono stati tuttavia trascurati o erroneamente interpretati in questa prima fase e difficilmente potrebbero essere recuperati o modificati successivamente. Il tutto genera una serie di perplessità, domande e necessità di chiarimenti che non possono essere risolti con la sola fase di osservazione”.

  • il rischio idrogeologico: secondo Legambiente, le carte riguardanti il rischio frane e alluvioni sarebbero state in alcuni casi fuorvianti
  • analisi del rischio di incidente rilevante del Deposito unico: manca. Tra i dati meteoclimatici presentati negli elaborati, non ci sono per esempio quelli relativi al vento in quota, essenziali per determinare la possibile ricaduta di sostanze radioattive in caso di incidente
  • analisi di rete degli elementi considerati: manca. Non esisterebbe, di fatto, una analisi dell’interrelazione tra diversi aspetti di un territorio, come quello paesaggistico, archeologico, storico e naturalistico
  • aree protette e di interesse naturalistico: in molti casi, le aree proposte sono inserite in un sistema di aree protette 
  • viabilità stradale, ad esempio, sono state escluse tutte le aree poste a meno di un chilometro da autostrade, superstrade e strade extraurbane principali, che consentono il maggiore volume di traffico e la massima velocità di spostamento. “Ciò a dispetto del fatto che il termine ‘superstrada’ non è contemplato né a livello amministrativo né giuridico”, conclude Legambiente.

La partita? È ancora tutta da giocare, dunque. 

Fonte: Legambiente 

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