Le difficoltà alla navigazione provocate dagli attacchi degli Houthi dello Yemen contro le navi nel Mar Rosso mettono a rischio le importazioni e le esportazioni italiane. Una situazione che impatta inevitabilmente anche sulle nostre tasche
Da ottobre scorso, da quando ci fu il primo attacco da parte della milizia yemenita degli Houthi, il numero di navi che transita nel Canale di Suez si riduce ogni giorno sempre di più. Le compagnie navali, infatti, stanno ora circumnavigando attorno all’Africa e doppiando il Capo di Buona Speranza, generando quello che ormai tutti definiscono “crisi del Mar Rosso”.
Se da un lato tutto ciò è sintomo di una grave allerta umanitaria mondiale, dall’altro accende i riflettori sull’ennesimo effetto che ricadrà a pioggia su tutti noi, nessuno escluso: l’aumento dei prezzi.
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Una simile deviazione delle navi (e ricordiamoci che il Canale di Suez è da sempre passaggio fondamentale per il commercio globale, con circa il 12% del commercio mondiale che vi transita ), infatti, va ad aggiungere dai 7 ai 20 giorni di navigazione, oltre a circa un milione di dollari di costi legati al carburante.
Del Canale di Suez si serve ovviamente anche l’Italia, visto che l’export rappresenta il 40% del nostro Pil, motivo per cui il sanguinoso conflitto in Medio Oriente tocca anche la nostra economia.
Secondo il Bollettino Economico della Banca d’Italia, su dati relativi al 2022, il trasporto navale attraverso il Mar Rosso riguarda quasi il 16% delle importazioni italiane di beni in valore. Su questa rotta transita una larga parte degli acquisti di beni dalla Cina (secondo mercato di approvvigionamento del nostro Paese dopo la Germania), dalle altre economie dell’Asia orientale e dai paesi del Golfo Persico esportatori di materie prime energetiche. Un terzo delle importazioni italiane nella filiera della moda arriva attraverso il Mar Rosso.
L’incidenza è elevata anche per le importazioni di petrolio greggio e raffinato e per quelle di prodotti metalmeccanici, che costituiscono quasi il 30% degli acquisti dall’estero del Paese. La rilevanza di tale rotta per le esportazioni è invece sensibilmente più bassa: vi transita circa il 7 per cento delle merci in scita dall’Italia.
La ricaduta sulle fossili
Come denunciato da Greenpeace Italia in un approfondimento, la rotta del Canale di Suez è strategica per le fonti fossili: da quel braccio di mare passano quasi il 5% del greggio mondiale, il 10% dei prodotti petroliferi e l’8% dei flussi marittimi di gas naturale liquefatto (GNL). I dati italiani sono ancora più netti: secondo FederPetroli, circa il 27% dell’import italiano di greggio e il 34% del GNL transitano dall’area interessata dal conflitto.
A metà gennaio, l’indicatore composito world container index elaborato da Drewry era già raddoppiato rispetto a novembre, pur rimanendo leggermente superiore alla media eccezionalmente alta del biennio 2021-22. Questo avrebbe ripercussioni sulle catene di produzione e potrebbe portare a un ulteriore aumento dei costi di spedizione nel 2024.
Per ora, l’impatto della crisi sui prezzi del petrolio è stato contenuto, anche perché frenato dall’aumento della produzione globale e dal rallentamento della domanda. Gli operatori, però, sanno bene che – come si legge nel report di Bankitalia – “un’escalation del conflitto rappresenta un rischio importante, che potrebbe portare a un’impennata dei prezzi del petrolio e di altre materie prime. Un risultato che
accentuerebbe l’insicurezza alimentare nella regione e in tutto il mondo”.
L’effetto dell’aumento dei prezzi dell’energia è immediato in Paesi come l’Italia, perché siamo dipendenti dalle importazioni di gas e petrolio – sottolinea nel documento di Greenpeace Mario Pianta, professore di Politica Economica della Scuola Normale Superiore di Firenze. Pur avendo riserve energetiche elevate, il nostro Paese non è immune a nuovi aumenti. Il problema è che l’Europa e l’Italia non si sono attrezzate. La guerra in Ucraina ha spinto a diversificare gli acquisti di gas, evitando la Russia, ma l’Italia non ha investito sul solare e sull’eolico, non ha riformato la logica speculativa dei mercati energetici, non ha limitato i super profitti e il potere e delle grandi imprese petrolifere e non ha introdotto un controllo dei prezzi per evitare la diffusione dell’inflazione al resto dell’economia.
In poche parole? Nessun investimento su un futuro sostenibile, ma solo accumulo di riserve fossili, senza alcuna attenzione all’emergenza climatica e agli equilibri geopolitici.
Tanto c’è Aspides…
La crisi del Mare Rosso potrebbe risolversi così: si chiama Aspides e si tratta della terza missione che sulla carta è volta a garantire la sicurezza dei traffici e la fine degli attacchi dei miliziani Houthi nel braccio di mare che va dal Golfo di Aden al Mar Rosso, percorso obbligato per raggiungere il Canale di Suez.
Data la gravità della situazione attuale e i nostri interessi geostrategici, è importante che l’Ue dimostri la sua volontà e le sue capacità di agire come attore di sicurezza globale, anche nel settore marittimo – si legge nel documento che viene presentato a Bruxelles in occasione del Consiglio Affari Esteri, Italia, Francia e Germania. La missione sarà in linea con la Convenzione Onu sul diritto del mare e sarà difensiva.
Le continue tensioni nell’area rischiano di ripercuotersi negativamente sull’economia globale, causando un aumento dei costi di trasporto e dei tempi di consegna delle merci. Se prolungata, potrebbe avere potenziali effetti destabilizzanti su alcuni Paesi, come l’Egitto, il cui bilancio dipende in gran parte dalle entrate provenienti dai transiti attraverso il Canale di Suez.
In parole povere: navi europee a difesa dei mercantili dagli attacchi marittimi. Una operazione militare bella e buona, quindi, in un costante e infinito braccio di ferro.
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