Per fermare la crisi climatica, le aziende devono unirsi insieme e diventare parte della soluzione. A sostenerlo è Beth Thoren di Patagonia
È in corso a Glasgow la Cop26 dove sono in gioco le sorti del nostro pianeta duramente provato dalla crisi climatica. I Governi indubbiamente devono fare la loro parte, ma senza che il settore privato si impegni a diventare parte della soluzione piuttosto che del problema, non abbiamo alcuna speranza. A sostenerlo è Beth Thoren, Director of Environmental Action Emea di Patagonia che in un articolo spiega anche perché il marchio ha scelto di non usare più la parola “sostenibile”.
In un articolo pubblicato sul magazine Fortune, Beth Thoren, direttrice delle azioni e iniziative ambientali Emea di Patagonia, parla molto chiaro e punta il dito sulle aziende, compresa la sua.
Nessuno si deve sentire escluso dal problema e tutti dovrebbero guardarsi allo specchio a lungo dato che l’impatto delle aziende (e non solo di moda) è particolarmente rilevante. Inoltre, sempre più diffuso è il greenwashing che, oltre ad aver sfiduciato i consumatori sempre più consapevoli, ovviamente non è la soluzione ma solo un mascherare ulteriormente il problema che invece va affrontato urgentemente.
Thoren scrive che in Patagonia non si usa la parola “sostenibile” e spiega perché:
Perché riconosciamo di essere parte del problema. In precedenza, ci eravamo prefissati l’obiettivo della neutralità del carbonio entro il 2025. Ma l’acquisto di compensazioni per arrivarci non cancella l’impronta che creiamo e non ci salverà a lungo termine. Dobbiamo innanzitutto mettere il peso della nostra attività dietro la riduzione drastica delle emissioni lungo l’intera lunghezza della nostra catena di approvvigionamento. Ciò che è inquietante è che, in questo momento, non siamo del tutto sicuri di come farlo. Il nostro impegno a utilizzare solo materiali rinnovabili o riciclati nei nostri prodotti entro il 2025 è un esempio calzante. Abbiamo impiegato anni di lavoro su questo e il nostro contenuto riciclato è ora fino al 68% del nostro utilizzo totale, ancora non abbastanza. Indagare tutte le opzioni, dall’aumento della vendita di prodotti di seconda mano alla moderazione della crescita e al taglio dell’ampiezza della nostra linea di prodotti, rafforza solo la nostra convinzione che non possiamo farlo da soli.
Il problema di fondo che segnala Thoren è che è necessario un cambiamento che coinvolga tutta la catena di approvvigionamento, responsabile – per quanto riguarda Patagonia – del 95% delle emissioni.
Produciamo in stabilimenti condivisi, spesso insieme a marchi molto più grandi. Quindi, abbiamo dovuto innovare. Stiamo sviluppando un approccio di “inserimento” nella nostra catena di approvvigionamento creando un meccanismo di finanziamento congiunto in cui altri marchi più piccoli possono collaborare con noi per investire nell'”inverdimento” delle fabbriche in cambio di crediti di carbonio. Come nel caso di molte delle nostre idee progressiste, al momento abbiamo solo la sensazione che funzionerà, ma sappiamo che dobbiamo provarci.
Il problema della catena di approvvigionamento riguarda ovviamente tantissimi marchi noti e meno noti, perché è facile dire che si tratta di un prodotto sostenibile ma un po’ meno controllare davvero tutti i passaggi necessari a realizzarlo.
L’obiettivo che dobbiamo raggiungere, secondo la direttrice delle azioni e iniziative ambientali di Patagonia, è “restituire più di quanto prendiamo“. Come possono farlo le aziende? Unendo le forze e lavorando insieme ad altre aziende che hanno le stesse finalità e spingono per un cambiamento di rotta prima che sia troppo tardi.
Il nostro messaggio alle imprese? Unisciti a noi per tagliare il bla, bla. Le nostre voci sono più forti quando parliamo insieme – scrive Thoren.
Un bel messaggio che però, proprio come quelli dei 190 leader mondiali impegnati a trovare soluzioni nella Cop26, speriamo porti a qualcosa di concreto e non rimanga solo una promessa, come è accaduto troppo spesso in passato.
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Fonte: Fortune
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