COP27, ci risiamo: di nuovo assenti gli allevamenti intensivi, ma sono tra i più grandi inquinatori

Anche nell’agenda della Cop27 c’è un grande assente: gli allevamenti intensivi. Nonostante il loro impatto sul clima sia devastante, si fa ancora finta di non vederli

Sono tra i principali responsabili delle emissioni di gas serra – metano, in particolare – e del rilascio di altre emissioni inquinanti, quali l’ammoniaca. A causa loro, si sta gradualmente perdendo biodiversità, con il “furto” di milioni di ettari di terreno, sottratti alle foreste per essere riconvertiti al pascolo o cementificati in mega-stalle. Eppure degli allevamenti intensivi nei grandi appuntamenti internazionali nemmeno l’ombra.

E così, come esattamente un anno fa alla COP26, anche la COP27 in programma a Sharm el Sheikh dal 6 al 18 novembre, tra gli argomenti affrontati dai leader chiamati a pianificare azioni concrete per mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli auspicati e forse irraggiungibili 1,5 Celsius, mancheranno loro, gli allevamenti intensivi.

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Senza un’azione corale centrata sull’impatto delle “fabbriche animali”, che producono lo stesso quantitativo di gas serra del traffico urbano, le armi contro i cambiamenti climatici rischiano di essere spuntate – dicono da ENPA. Il nostro auspicio è che il prossimo vertice di Sharm el Sheikh adotti finalmente iniziative forti e concrete.

Un punto di partenza, secondo ENPA, dovrebbe essere quello di considerare gli allevamenti come delle vere fabbriche, prevedendo in materia di emissioni inquinanti normative e procedimenti autorizzativi più stringenti e severi, che riducano in misura significativa non soltanto l’impatto sull’ambiente ma anche la sofferenza degli animali.

Animali che, non dimentichiamocelo, sono costretti a una vita innaturale e di privazioni al solo scopo di finire nei nostri piatti. Su questi temi l’Europa qualche segnale lo sta già dando, ma altri Paesi sono ancora molto indietro.

Il punto di arrivo di questo percorso dovrebbe essere la fine di un’esperienza che si è dimostrata fallimentare dal punto di vista etico, ambientale, sanitario (al consumo di carne è associato un aumento delle patologie tumorali) e perfino economico (produrre un chilo di carne costa molto di più che produrre un chilo di pane).

Adottare stili di vita e di consumo cruelty free non è un’utopia. Se un settore industriale come l’automotive si sta riconvertendo dai fossili all’elettrico, con una trasformazione inimmaginabile fino a trent’anni fa, perché mai non dovrebbe essere possibile sostituire le proteine animali della carne con quelle vegetali? Tanto più che per questo non sono necessarie né rivoluzioni tecnologiche, né faraonici investimenti.

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Fonte: ENPA

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