L'ombra dell'industria inquina i negoziati sul trattato ONU per la plastica. Un'analisi rivela la presenza di 220 lobbisti del settore, più di qualsiasi delegazione nazionale, che rischia di minacciare l'obiettivo di ridurre la produzione del derivato petrolifero
Mentre a Busan si svolge il quinto e decisivo round di negoziati per un trattato internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica, la massiccia presenza di lobbisti dell’industria chimica e dei combustibili fossili rischia di compromettere l’ambizione dell’accordo.
Un’analisi del Center for International Environmental Law (CIEL) ha rivelato un dato allarmante: ben 220 rappresentanti dell’industria della plastica sono presenti ai negoziati (INC-5). Un numero record, che supera persino le delegazioni dell’Unione europea (191 membri) e del Paese ospitante, la Corea del Sud (140 membri). Addirittura, i delegati dei piccoli Stati insulari in via di sviluppo del Pacifico (PSID), tra i più colpiti dall’inquinamento da plastica, sono solo 89, surclassati in numero dai lobbisti del settore. Come se non bastasse, sedici lobbisti dell’industria della plastica sono presenti ai colloqui come parte delle delegazioni nazionali di Stati come Cina, Repubblica Dominicana, Egitto, Finlandia, Iran, Kazakistan e Malesia.
🚨 BREAKING: 220 fossil fuel and chemical industry lobbyists have registered for #INC5 — more than any other #PlasticsTreaty negotiation to date. pic.twitter.com/TuzjUgsbM4
— #BreakFreeFromPlastic (@brkfreeplastic) November 28, 2024
Questa massiccia presenza solleva serie preoccupazioni sull’influenza che questi lobbisti potrebbero esercitare sui negoziati. L’obiettivo del trattato, promosso dall’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEA) nel febbraio 2022, è chiaro: porre fine all’inquinamento da plastica lungo tutto il suo ciclo di vita, dalla produzione allo smaltimento. Ma come raggiungere questo obiettivo se chi trae profitto dalla produzione di plastica ha un peso così rilevante nelle decisioni? “L’analisi di CIEL rivela come queste lobby industriali siano disposte anche ad avvelenare il nostro Pianeta e la salute delle persone per sabotare l’accordo pur di proteggere i propri profitti”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia.
Il nodo cruciale è la riduzione della produzione di plastica. Mentre la comunità scientifica e le organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace, chiedono limiti vincolanti alla produzione di plastica vergine, l’industria si oppone strenuamente, puntando su soluzioni che non risolvono il problema alla base, come il riciclo e la gestione dei rifiuti. “Dal primo giorno di negoziati”, afferma Delphine Levi Alvares di CIEL, “abbiamo visto i lobbisti del settore utilizzare tattiche di ostruzione, distrazione e disinformazione. La loro strategia è chiara: preservare gli interessi finanziari delle aziende, anteponendo i profitti alla salute umana e al futuro del Pianeta“. Questa strategia non è nuova: l’industria della plastica, così come quella dei combustibili fossili, ha una lunga storia di lobbying aggressivo e disinformazione per ritardare l’azione sulla crisi ambientale.
I dati sull’inquinamento da plastica sono inequivocabili: la produzione è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni, passando da 156 milioni di tonnellate nel 2000 a 353 milioni di tonnellate nel 2019, e si prevede un’ulteriore triplicazione entro il 2060. Solo il 9% della plastica prodotta viene riciclato.
Ogni anno, circa 460 milioni di tonnellate di plastica vengono prodotte a livello globale, e con gli attuali tassi di crescita, questa cifra è destinata a triplicare entro il 2060. Milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani, formando isole di rifiuti galleggianti, intrappolando e uccidendo animali marini, e frammentandosi in microplastiche che entrano nella catena alimentare, contaminando anche l’aria e il suolo.
Le conseguenze per la salute umana sono ancora in fase di studio, ma le prospettive non sono rassicuranti. Le microplastiche sono state trovate nell’acqua che beviamo, nel cibo che mangiamo e persino nell’aria che respiriamo. Studi scientifici suggeriscono che queste particelle possano interferire con il sistema endocrino, causare danni al sistema riproduttivo e aumentare il rischio di cancro. Inoltre, l’inquinamento da plastica ha un impatto devastante sulle comunità più vulnerabili, che spesso vivono in prossimità di discariche o impianti di incenerimento, esposte a sostanze tossiche e a condizioni di vita insalubri.
La posta in gioco è alta: il futuro del nostro Pianeta. Non possiamo permettere che gli interessi di pochi prevalgano sul benessere di tutti. È il momento di agire con coraggio e determinazione per proteggere la nostra casa comune. Come afferma Graham Forbes, capo della delegazione di Greenpeace: “Gli imperativi morali, economici e scientifici sono chiari: entro la fine della settimana, gli Stati membri devono elaborare un trattato globale sulla plastica che dia priorità alla salute umana e a un Pianeta vivibile rispetto ai compensi dei Ceo“.
Greenpeace, insieme al movimento Break Free from Plastic, ha consegnato ai leader globali riuniti a Busan le firme di quasi tre milioni di persone che in questi anni hanno sottoscritto una petizione per chiedere un ambizioso Trattato globale sulla plastica. L’Italia ha contribuito a questo appello in maniera significativa, raccogliendo oltre 350 mila adesioni. La petizione chiede ai governi di andare oltre il riciclo come unica soluzione e di impegnarsi a ridurre la produzione di plastica di almeno il 75% entro il 2040; vincolare le grandi multinazionali a vendere sempre più prodotti sfusi o con packaging riutilizzabile; assicurare che i Paesi sviluppati guidino una giusta transizione e offrano supporto ai Paesi in via di sviluppo; dare voce a Popoli Indigeni, comunità vulnerabili e lavoratori nella progettazione di una transizione verso un’economia basata sul riuso.
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