Trent’anni fa, l'incidente nucleare di Chernobyl ha provocato un disastro ambientale e sanitario di proporzioni enormi, costringendo oltre100 mila persone ad abbandonare le proprie abitazioni e trasformando in una landa spettrale un’area di circa 2.600 kmq lungo la frontiera tra Ucraina e Bielorussia. Ma nel piccolo villaggio di Tulgovich la vita ha continuato a scorrere: nonostante il pericolo di radiazioni, una coppia si è rifiutata di abbandonare la propria casa, scegliendo il silenzio e la solitudine.
Trent’anni fa, l’incidente nucleare di Chernobyl ha provocato un disastro ambientale e sanitario di proporzioni enormi, costringendo oltre100 mila persone ad abbandonare le proprie abitazioni e trasformando in una landa spettrale un’area di circa 2.600 kmq lungo la frontiera tra Ucraina e Bielorussia. Ma nel piccolo villaggio di Tulgovich la vita ha continuato a scorrere: nonostante il pericolo di radiazioni, una coppia si è rifiutata di abbandonare la propria casa, scegliendo il silenzio e la solitudine.
Oggi Ivan Shamyanok ha novant’anni. Ha sempre vissuto a Tulgovich, in Bielorussia: un piccolo agglomerato di case che il 26 aprile del 1986 è stato avvelenato dalle radiazioni causate dal peggior disastro nucleare di sempre. Il bilancio ufficiale delle vittime dell’incidente di Chernobyl conta appena 31 nomi, ma un numero molto maggiore di persone è deceduto nei mesi e negli anni immediatamente successivi a causa delle malattie causate dalle radiazioni, mentre non si hanno numeri certi riguardo alle patologie e alle morti provocate dagli effetti sul lungo periodo.
All’epoca del disastro, Shamyanok e la moglie si opposero fermamente al trasferimento in un’altra regione e decisero di rimanere a vivere nel villaggio deserto, come se nulla fosse, continuando a coltivare verdure e ortaggi nel proprio orto e ad allevare mucche, maiali e polli. Un’esistenza molto semplice, la loro, e, nonostante tutto, serena: a trent’anni di distanza, Shamyanok sostiene che il segreto per avere una lunga vita è non abbandonare mai il luogo in cui si è nati.
“Fin qui, tutto bene.” – racconta in un’intervista – “I medici sono venuti ieri, mi hanno messo sul letto, controllato e misurato. Hanno detto ‘stai bene, nonno.’ […] Mia sorella ha vissuto qui con il marito. Hanno deciso di andarsene e ben presto sono morti… Sono morti di ansia. Io non sono ansioso. Canto un po’, faccio un giro in giardino, prendo le cose con calma e vivo.”
Ora che sua moglie è morta e i suoi figli si sono trasferiti lontano, lui e suo nipote, che abita dalla parte opposta del villaggio, sono gli unici abitanti rimasti a Tulgovich.
“La gente potrà tornare indietro?” – si chiede – “No, non tornerà. Quelli che volevano tornare sono già morti.”
Shamyanok conduce una vita tranquilla: si alza ogni giorno alle sei, quando la radio trasmette l’inno nazionale; poi accende la stufa di ghisa per riscaldare la sua colazione e va a dare da mangiare ai suoi maiali e al suo cane. Un furgoncino che funge da negozio-mobile visita il villaggio due volte a settimana e ogni sabato riceve la visita di una nipote che gli pulisce la casa e prepara delle pietanze per l’intera settimana. Sostiene di non avere problemi di salute, ma assume alcuni farmaci e, prima dei pasti, si concede un bicchierino di vodka.
Una quotidianità frugale e solitaria, insomma, in un villaggio fantasma, trasformato dal tempo in una distesa di ruderi e campi incolti. Ma, agli occhi di quest’uomo ormai anziano e così legato alla sua terra e alle sue radici, questa vita è e rimane, a dispetto di tutto, l’unica possibile.
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