Sta per concludersi l'ultimo giorno di negoziati a Barcellona dove i leader di una quarantina di Paesi nel mondo sono riuniti nell'ultimo appuntamento utile per trovare una linea comune da portare avanti a Copenhagen il prossimo dicembre. Secondo quanto riferito oggi dalle Nazioni Unite, però, i colloqui preparatori hanno archiviato progressi insufficienti che, tradotto, significa niente passi avanti sul fronte dell'accordo per ridurre le emissioni. Anzi.
Sta per concludersi l’ultimo giorno di negoziati a Barcellona dove i leader di una quarantina di Paesi nel mondo sono riuniti nell’ultimo appuntamento utile per trovare una linea comune da portare avanti a Copenhagen il prossimo dicembre. Secondo quanto riferito oggi dalle Nazioni Unite, però, i colloqui preparatori “hanno archiviato progressi insufficienti” che, tradotto, significa niente passi avanti sul fronte dell’accordo per ridurre le emissioni. Anzi.
All’ennesimo rifiuto di assumere impegni concreti o, comunque all’ulteriore richiesta di proroga per un anno avanzata dei Paesi industrializzati, i Paesi in via di sviluppo, quelli più poveri, quelli che affronteranno per primi le conseguenze del climate change, si sono alzati e hanno abbandonato i tavoli delle trattative.
È la prima volta nella storia dei summit internazionali che un gruppo di Paesi innesca una protesta così ferma come quella a cui si è assistito martedì sera nella città catalana, che ha gelato ogni possibile decisione. Perché se sul lungo periodo c’è una larga intesa per ridurre dell’80% (e, come abbiamo visto, fino al 95% nelle intenzioni dell’Unione Europea) entro il 2050, (tra quarant’anni chissà se saremo lì per accertarcene) nel breve periodo, quello dove bisogna intervenire concretamente, invece, continua lo “scaricabarile” delle responsabilità.
I Paesi “ribelli” capitanati dal Gambia, ma spalleggiati anche da Cina e India, contestano inoltre la mancanza di aiuti economici e tecnologici per essere messi nelle condizioni di sviluppare un’economia low-carbon. Il Consiglio della Ue aveva stimato tale aiuto in 100 miliardi di euro l’anno, il WWF ne auspica invece 160. Tutti soldi che andrebbero, comunque, a finanziare tecnologie provenienti dagli stati occidentali, ma neanche su questo fronte si è arrivati ad una soluzione comune.
Anche se ieri i Paesi africani sono tornati a sedersi al tavolo delle trattative, ad oggi ancora nulla di fatto, se non le prove generali di quello che si teme per Copenaghen per la quale l’ONU vuole estendere l’invito anche i leader del mondo per provare a superare le divergenze e “per imprimere al vertice la spinta finale“, riferisce oggi Yvo de Boer, a capo della Segreteria Onu per il cambiamento climatico.
Intanto Greenpeace, per protestare sulla situazione di stallo che si è creata, è salita sulla statua di Cristoforo Colombo, a Barcellona, quella che dalle Ramblas punta il dito verso l’America di Obama, aprendo uno striscione con scritto “CAOS CLIMATICO, DI CHI È LA COLPA?”
Ed è proprio al Premio Nobel che gli attivisti attribuiscono le maggiori responsabilità sul mancato accordo per il clima: “Crediamo che il Presidente Obama non abbia mantenuto le promesse fatte. In America, è stato a guardare mentre il Congresso permetteva alle lobby di petrolio e carbone di affossare la neonata legislazione sul clima.- commenta Damon Moglen, Direttore delle Campagne di Greenpeace USA – A livello internazionale, è stato in silenzio mentre i negoziatori americani bloccavano il più importante trattato sul clima di tutti i tempi“.
E a poco più di un mese da Copenhagen, l’unico accordo internazionale attualmente esistente rimane dunque il Protocollo di Kyoto, l’unico documento che contiene impegni chiari, già assunti ma in parte disattesi essi stessi, pur se modesti rispetto agli obiettivi che si dovrebbe fissare a dicembre per evitare il collasso.