E se le mani sulla città fossero quelle dei bambini? Prendendo spunto dal capolavoro di Francesco Rosi del 1963, viene da chiedersi se quella che può sembrare una semplice provocazione possa rappresentare una nuova prospettiva attraverso la quale dare forma a politiche di progettazione urbana capaci di prendere in considerazione le reali esigenze dei cittadini.
E se le mani sulla città fossero quelle dei bambini? Prendendo spunto dal capolavoro di Francesco Rosi del 1963, viene da chiedersi se quella che può sembrare una semplice provocazione possa rappresentare una nuova prospettiva attraverso la quale dare forma a politiche di progettazione urbana capaci di prendere in considerazione le reali esigenze dei cittadini.
Già nel 1992, nel corso della Conferenza di Rio, il primo summit mondiale dei capi di stato sull’ambiente, i bambini venivano riconosciuti come interlocutori privilegiati, capaci di offrire punti di vista originali e utili per promuovere una maggiore sostenibilità nelle nostre città . Il presupposto era che “una città adatta ai più piccoli è in grado di garantire una migliore qualità di vita a tutti i cittadini”.
Sono passati circa vent’anni da quella data e le diplomazie internazionali hanno compiuto molti passi avanti in materia di ambiente. La logica con cui le politiche sul territorio si sono sviluppate ha però continuato a separare il fronte degli adulti da quello dei bambini, come se le due componenti della società occupassero porzioni diverse del territorio, considerando minoritarie e accessorie le seconde. Al contrario, è evidente come soluzioni parziali che tengono in considerazione solo le esigenze della parte attiva della popolazione ricadano negativamente sulla restante. Di questa situazione ne sono testimonianza i danni alla salute e alla crescita che i bambini subiscono a causa dell’inquinamento ambientale: da un lato l’aumento di casi di malattie respiratorie e nuove forme allergiche e dall’altro la fatica dei ragazzi ad aggregarsi e condividere luoghi e spazi di partecipazione a causa delle difficoltà di spostamento. A questo spesso si aggiunge la paura dei genitori a lasciare uscire i figli da soli, con conseguenze sullo sviluppo del senso di responsabilità, di autonomia e di autostima dei futuri cittadini.
L’Unicef ha istituito da qualche anno un network composto dalle città amiche dei bambini. Alla base del concetto sta un manifesto che comprende una serie di indicazioni minime: oltre al diritto di accesso ai servizi di base senza alcuna discriminazione, al diritto alla salute, all’educazione e all’incolumità, una città deve garantire il rispetto del diritto di partecipazione alla vita sociale, di influenza sulle decisioni e di libertà di espressione. A questi si aggiungono il diritto di vivere in un ambiente non inquinato e quello di poter accedere a spazi verdi e strade non pericolose.
In che modo allora le città italiane stanno rispondendo all’invito di diventare “a misura dei più piccoli”? Nell’ambito dell’ultimo rapporto di Legambiente intitolato Ecosistema Bambino sono indicate alcune buone pratiche che a macchia di leopardo si stanno sviluppando sul territorio e che in vario modo approcciano il problema. Rispetto ai 57 comuni che hanno partecipato all’indagine, 29 dichiarano di aver attivato i Piedibus () e 19 i Bicibus , sorte di “autoveicoli” umani tramite i quali i bambini hanno la possibilità di spostarsi da casa a scuola e viceversa a piedi e senza l’accompagnamento dei genitori ma comunque seguiti e protetti da volontari. Tra le iniziative più interessanti c’è quella di Bolzano dove un’ordinanza del sindaco ha vietato ai veicoli a motore di trovarsi nei pressi delle uscite delle scuole 15 minuti prima e 15 minuti dopo il suono della campanella. Gli istituti di Reggio Emilia invece hanno introdotto la figura del Mobility Manager che ha il compito di restituire le problematiche relative alla mobilità degli studenti e delle famiglie mentre a Bologna e Vercelli sono state attivate agevolazioni per chi si muove con i mezzi pubblici.
Le sperimentazioni più interessanti provengono da quelle realtà che invece hanno messo in atto la provocazione iniziale. Le città di Arezzo, Livorno e Pordenone hanno promosso processi che coinvolgono bambini e adulti al fine di mettere in luce le problematiche relative alla mobilità nel quartiere, al contesto urbano e all’individuazione di spazi e percorsi sicuri.
Nel corso di uno studio compiuto a New York, in occasione di un’attività di progettazione partecipata realizzata in alcune scuole del Bronx, è emerso come i bambini possiedano una capacità di interpretazione della realtà e dello spazio notevolmente diversa da quella degli adulti. La possibilità di farla emergere sta spesso nel supporto con cui si offre loro la rappresentazione dello spazio. Lo studio evidenziava come, molto più che con il disegno, i giovani scolari si sentissero stimolati se posti di fronte a un plastico. In questo modo essi avevano modo di riconoscere facilmente i punti di riferimento e di conseguenza le criticità. Spesso le percezioni di bambini e genitori divergevano e non sempre a favore degli adulti.
Decisamente avanguardistiche sono invece le sperimentazioni che dagli anni ’70 vengono compiute in Olanda per favorire l’uso della bicicletta fin dalla tenera età, specie nel percorso da casa a scuola. In città come Utrecht circa il 27% della popolazione compie spostamenti in bici. Questi numeri sono l’esito di politiche costanti che hanno favorito l’introduzione di corsi specifici all’interno dei programmi scolastici per l’uso della bici e l’orientamento in città. Si inizia alle elementari facendo pratica all’interno di un TrafficGarden, una sorta di città in miniatura dentro la quale muoversi su un veicolo a pedali. Alla soglia degli undici anni, i bambini sono accompagnati in strada per proseguire l’ insegnamento che si conclude con il rilascio di un attestato.
Anche uno spostamento di circa venti minuti compiuto in bicicletta ogni giorno è considerato dall’OMS una valida attività con la quale contrastare l’insorgere dell‘obesità in tenera età. Questo, insieme a molti altri, è uno dei benefici che deriva dal progettare città che prendono in considerazione le esigenze dei piccoli e dei grandi. Non lontane da questo presupposto sono le basi sulle quali sono stati costruiti i più avanzati quartieri eco-sostenibili europei. Partiamo da Vienna. Qui esiste un quartiere chiamato Autofrei Siedlung, dove i 600 abitanti, da contratto, sono obbligati a non usare l’auto e a spostarsi esclusivamente a piedi, in bici o con i mezzi pubblici. A Friburgo, città nota per la sua svolta green, esiste un intero distretto costituito da 6000 abitanti che è riuscito a scoraggiare l’uso dell’auto a favore di altri mezzi di spostamento. Malmo nel sud della Svezia vanta invece un sistema composto da 250km di piste ciclabili che ha permesso di alzare al 40% la percentuale di spostamenti casa-lavoro compiuti in bici.
Sono esempi poco distanti geograficamente che, tuttavia, appaiono ancora lontani dalla quotidianità italiana. Eppure, se ci mettessimo a guardare la città dall’altezza degli occhi di un bambino ci accorgeremmo che è molto diversa.
Pamela Pelatelli