Il Governo deve pagare risarcimenti milionari, lo stabilisce una sentenza storica dopo due anni di scontri giudiziari
In un mondo ideale, il problema dell’approvvigionamento dell’acqua potabile in alcune aree del Canada dovrebbe essere inesistente: parliamo di un territorio caratterizzato da oltre 31mila laghi con superficie oltre i 3 km², uno tra i Paesi con la maggiore disponibilità idrica al mondo in rapporto agli abitanti.
Eppure il problema esiste, in particolare per le tribù First Nations, nonostante le promesse dei vari Governi che si sono succeduti già dagli anni ‘80. Alcune delle restrizioni imposte, secondo i dati riportati nel sito governativo, risalgono al 2003 e nel corso del tempo hanno interessato le regioni di Alberta, Manitoba, Ontario, Saskatchewan e Quebec, soprattutto le aree più remote dove sono stanziati i nativi e dove scarseggiano le adeguate infrastrutture. Intere tribù sono costrette da anni a bollire l’acqua prima di utilizzarla, anche per l’elevate tracce di uranio. Questo non ha fermato la possibilità di contrarre infezioni intestinali, cutanee, polmoniti.
Nel 2015 il premier Justin Troudeau affrontò l’argomento mentre era impegnato nella campagna elettorale per la sua elezione e promise di risolvere la situazione entro marzo 2021. Un documento pubblicato dall’Ufficio generale di verifica del Canada nel febbraio 2021, ha confermato il fallimento di queste previsioni: “l’acqua potabile sicura è vitale per la salute di tutti, comprese le circa 330.000 persone che vivono in più di 600 comunità delle Prime Nazioni” ma nonostante gli sforzi anche economici registrati, non è stato fornito il supporto e l’assistenza necessari alle comunità First Nations. Gli avvisi sulla pericolosità dell’acqua sono rimasti tali per oltre 10 anni.
Il rapporto sottolinea poi altri due punti fondamentali: non esiste ancora un quadro legislativo chiaro per gestire e regolare la situazione; solo la collaborazione tra l’Indigenous Services Canada e le popolazioni coinvolte può semplificare l’adozione di soluzioni sostenibili. L’esecutivo ha apertamente ammesso l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Le comunità interessate però hanno deciso di agire: nel 2019 sono state avviate due class action, arrivate sia alla Corte Federale del Canada e dalla Corte di Queen’s Bench di Manitoba. Nel dicembre 2021 è stato trovato un accordo comune per entrambe le azioni: un risarcimento da parte del governo di oltre 5 milioni di euro in favore delle popolazioni coinvolte, la garanzia della costruzione delle infrastrutture necessarie, la modernizzazione della legislazione di settore.
Il perdurare della situazione ha fatto emergere figure di giovani attivisti che, grazie anche alla rete, denunciano le lentezze e la stanchezza di chi vorrebbe solo poter bere un bicchier d’acqua a casa. Il video condiviso dalla water activist Autumn Peltier, indirizzato anche al premier canadese, fa capire più di mille parole la situazione: dal rubinetto della cucina sgorga acqua marrone e così è impossibile anche cucinare o lavarsi.
Una delle conseguenze commerciali che questa situazione ha comportato è la crescente diffusione dell’acqua in bottiglia. Se questa scelta è quasi un obbligo per comunità come quella dei Neskantaga, che “vive” così dal 1995, lo stesso non si può dire per il resto della popolazione. Come riporta l’osservatorio indipendente Water Grabbing, l’acqua nella regione dell’Ontario, che dovrebbe essere utilizzata dai First Nations, viene invece raccolta dai privati che operano nel settore come Nestlé. Un fenomeno che sta progressivamente aumentando.
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Fonti: Governo Canadese; Ufficio generale di verifica del Canada; Water Grabbing
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