Alcune importanti ONG, tra cui Survival International e Amnesty International, hanno pubblicato una dichiarazione congiunta per contrastare l'idea di trasformare il 30% del pianeta in Aree Protette entro il 2030 (30×30), la cui adozione è in programma proprio in questi giorni alla COP15
In questi giorni in Canada si sta svolgendo la COP15, come vi abbiamo già raccontato sono oltre 190 i paesi che stanno discutendo sulle misure da intraprendere da adesso fino al 2030 a favore della biodiversità. Ma tra queste, c’è la cosiddetta 30×30, che prevede di trasformare il 30% del pianeta in Aree Protette e che non piace a Survival International e Amnesty International che, insieme ad altre associazioni, in una nota congiunta esprimono a gran voce le loro perplessità.
“Senza una seria revisione, il cosiddetto target del 30×30 distruggerà la vita di molti popoli indigeni e sarà profondamente devastante per i mezzi di sostentamento di altre comunità che usano la terra per la sussistenza, e allo stesso tempo distoglierà l’attenzione dalle vere cause del collasso della biodiversità e del clima”, scrivono le associazioni da sempre a fianco dei popoli indigeni.
Come vi abbiamo più volte raccontato, l’80% della biodiversità attualmente esistente sul pianeta si trova all’interno delle terre ancestrali. Da anni, i popoli indigeni, ribattezzati più volte i difensori della natura per il loro impegno contro il disboscamento, le miniere, le dighe e in generale, il depauperamento delle risorse naturali, vengono perseguitati, minacciati e uccisi. E questa misura potrebbe rivelarsi l’ennesimo colpo basso.
“Qualsiasi accordo 30×30 negoziato negli ultimi giorni durante la COP15 deve riconoscere che la conservazione è più efficace sulle terre indigene che nelle aree protette gestite dallo stato. Gli Stati devono riconoscere gli indigeni come guardiani della conservazione e interpellarli come richiesto dall’Indigenous Biodiversity Forum”, spiega Chris Chapman, consigliere di Amnesty International per i diritti degli indigeni.
Senza dimenticare che bisognerebbe anche rispettare la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni che prevede il loro consenso libero, preventivo e informato per tutte le azioni riguardanti le terre ancestrali.
Oltre a Survival International e Amnesty International, a firmare la dichiarazione sono anche Minority Rights Group International e Rainforest Foundation UK.
La dichiarazione esprime, quindi, una grave preoccupazione: “è probabile che a costituire la maggior parte del target siano le Aree Protette restrittive”. Queste aree, “cardine del modello di conservazione dominante condotto dall’Occidente, hanno comportato sfratti diffusi, fame, malattie e violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi, stupri e torture in Africa e Asia”.
Tra le altre raccomandazioni, le organizzazioni richiedono che qualunque obiettivo di conservazione incluso nel nuovo Quadro Globale per la Biodiversità (Global Biodiversity Framework GBF) “dia priorità al riconoscimento e alla protezione dei sistemi di proprietà territoriale collettiva e consuetudinaria dei popoli indigeni” e “riconosca il diritto delle altre comunità che usano la terra per la sussistenza a essere protette dagli sfratti forzati”.
“L’idea che il 30×30 sia uno strumento efficace nella protezione della biodiversità non ha alcuna base scientifica” ha dichiarato oggi Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per decolonizzare la conservazione. “L’unico motivo per cui è ancora in discussione nelle negoziazioni è che viene spinto con forza dall’industria della conservazione, che vede in esso un’opportunità per raddoppiare la quantità di terra sotto il suo controllo. Se sarà approvato, costituirà il più grande furto di terra della storia e deruberà milioni di persone dei loro mezzi di sussistenza. Se i governi intendono davvero proteggere la biodiversità, la risposta è semplice: riconoscere i diritti territoriali dei popoli indigeni”.
Fonte: Survival International/Amnesty International
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