Dal 1988 ad oggi, il Paese ha registrato un aumento della copertura forestale pari al 22%, grazie al lavoro delle comunità indigene che si sono impegnate nel ripristino dell’ecosistema. Il governo del Nepal ha apportato un cambiamento progressivo alla sua politica forestale e ha trasferito gran parte dei diritti delle sue foreste alle comunità locali
Parliamo spesso di deforestazione e distruzione degli ecosistemi naturali – siano esse causate da cattive politiche ambientali o dall’incuria delle popolazioni locali che mettono i propri interessi economici davanti alla tutela della Natura.
Oggi, tuttavia, vogliamo raccontarvi di un esempio virtuoso di una comunità che ha voluto e saputo rimboccarsi le maniche e ripristinare un territorio naturale profondamente danneggiato dall’agire umano: il Nepal.
Più di quarant’anni fa, il governo nazionale ha invertito la rotta promuovendo una politica volta a ripristinare l’ecosistema delle foreste, avvalendosi di un aiuto prezioso e troppo spesso denigrato: quello delle comunità indigene.
Infatti, grandi aree del terreno che un tempo appartenevano alla foresta sono state messe nelle mani sapienti e attente di 14 milioni di volontari indigeni: scopo dell’iniziativa, riportare le foreste al loro splendore originario.
L’impegno degli indigeni, spalmato nell’arco di quasi mezzo secolo, ha dato ottimi frutti e ha attirato l’ammirazione di ambientalisti e governi di tutto il mondo. Le foreste gestite dalle comunità locali ora rappresentano più di un terzo della copertura forestale del Nepal.
Secondo i dati diffusi dal Governo nazionale, l’estensione delle foreste è cresciuta di circa il 22% dal 1988. Uno studio indipendente condotto dall’East-West Center e finanziato dalla NASA, conferma che la vegetazione in Nepal è quasi raddoppiata fra il 1992 e il 2016, con le foreste che ora coprono il 45% del territorio nazionale.
Il cambiamento, prima che essere ambientale, ha interessato la mentalità delle persone. Quando le foreste erano un bene gestito dal Governo, chiunque si sentiva in diritto di andare e predare, distruggere, abbattere gli alberi per ricavarne legna da ardere.
Come prevedibile, la piaga della deforestazione selvaggia e incontrollata ha favorito l’aumento di disastri ambientali come alluvioni, frane e smottamenti. È stato questo il campanello d’allarme che ha finalmente smosso le autorità nazionali, motivandole a trovare una soluzione a questo fenomeno.
A partire dagli anni Ottanta, quindi, prese avvio un enorme sforzo di riforestazione, sostenuto anche grazie a finanziamenti stranieri. Ma la vera svolta è rappresentata dal contributo delle comunità indigene nella protezione degli alberi e del territorio.
Nel corso degli anni, grazie alle cure e alle attenzioni degli indigeni, la foresta è davvero rinata. Alcune delle foreste gestite dagli indigeni si trovano in prospicienza di parchi nazionali e la loro rinascita ha permesso a specie vegetali e animali in via di estinzione – come la tigre, il rinoceronte e il gaviale (una specie di coccodrillo) – di tornare a prosperare.
Ora la sfida consiste nel mantenere costante questa fragile ripresa, proteggendo gli alberi dalla deforestazione e gli animali selvatici dai bracconieri. Ma c’è anche un’altra minaccia che incombe sulle foreste e che rischia di vanificare il lavoro di anni: gli incendi.
Con l’aumento delle temperature globali, infatti, il rischio di incendi boschivi è sempre più alto: le fiamme possono vanificare in pochi attimi un lavoro lungo anni fatto per proteggere la foresta. Per questo motivo, ogni giorno centinaia di volontari ripuliscono il terreno da ramoscelli secchi, erba e corteccia – tutto materiale che favorirebbe la propagazione delle fiamme.
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Fonti: New York Times / East-West Center
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