In Afghanistan e in Pakistan le bambine vengono travestite da maschi per poter uscire da sole, andare a scuola e giocare. Arrivata la pubertà si torna ad essere donne per poi essere sottomesse dalle rigide regole patriarcali
“Tu sarai un maschio, figlia mia”. Ukmina ricorda bene la sua infanzia. C’è però un fatto che non può ricordare perché è accaduto quando aveva soltanto un mese, eppure quel giorno, dopo le parole pronunciate da suo padre, è cambiata tutta la sua vita.
Oggi, Ukmina Manoori è una scrittrice di successo e il suo libro “Le bambine non esistono” (ed Libreria Pienogiorno) è stato tradotto in tutto il mondo. Ma Ukmina è stata anche una bambina afghana cresciuta con abiti maschili e con la libertà che quegli abiti maschili, in una società patriarcale, le hanno conferito per un pezzetto della sua vita.
Nonostante sia cresciuta sui monti afghani al confine con il Pakistan, in una zona ancora legata a tradizioni secolari, Ukmina sin da piccola va in bicicletta, gioca a pallone, si sposta da sola per le commissioni, parla da pari con gli uomini del suo villaggio. Il motivo per cui può farlo è perché Ukmina non esiste.
È un fantasma. Undicesima dopo sette femmine e tre maschi morti in fasce, quando ha superato il mese di vita, suo padre ha capito che ce l’avrebbe fatta e ha sentenziato: «Tu sarai un maschio, figlia mia».
Ukmina è una bacha posh
Ukmina è stata una bacha posh, un termine che tradotto dal Dari significa ‘ragazza vestita come un ragazzo’. In Afghanistan e in Pakistan a una donna non è permesso uscire da sola, lavorare, andare a scuola, così molte famiglie per garantirgli queste libertà, decidono di travestire le figlie femmine da maschi e gli impongono di comportarsi come se fossero dei figli maschi. Arrivata la pubertà si torna ad essere donne per poi essere sottomesse dalle rigide regole patriarcali.
La pratica del bacha posh non è una inusuale, al contrario è in costante aumento negli ultimi decenni. Succede nelle famiglie che non hanno figli maschi, ma anche in quelle che i maschi ce l’hanno, proprio perché alle bambine è impedito di fare qualsiasi cosa
“Quando sono nata -si legge nel libro di Ukmina Manoori – mio padre capì subito che sarei vissuta. Aspettò un mese e poi, vedendomi crescere e ingrassare in misura insolita in questa terra povera, pronunciò una frase che cambiò il corso della mia vita: «Tu sarai un maschio, figlia mia». Mia madre non si oppose, anche lei aveva bisogno di un figlio maschio. Mio fratello maggiore aveva già dieci anni, ai miei genitori serviva un altro maschio che aiutasse la famiglia, andasse a fare la spesa, badasse agli animali, lavorasse la terra e facesse tutto quello che un uomo ha il dovere e il diritto di fare. Noi siamo musulmani e pashtun, ci sono delle regole: una donna non può comparire in pubblico da sola, il che limita considerevolmente l’ambito delle sue attività”.
Ukmina diventa così Hukomkhan. Si legge ancora: “A partire da quel momento, unicamente per volontà dei miei genitori, la mia famiglia e i miei vicini dovevano considerarmi come un fratello, dimenticare che ero nata femmina, chiamarmi Hukomkhan, “l’uomo che dà ordini”, e non più con il nome che mi avevano dato alla nascita, Ukmina. Se dei conoscenti passavano da casa nostra portando regali per una bambina, mio padre li rifiutava dicendo: «Questo è mio figlio, non mia figlia». Così diventai Hukomkhan”.
La famiglia di Ukmina è la classica famiglia afghana. Sua madre a 15 anni sposa un uomo più vecchio di 15. Un uomo ricco con capre, pecore, mucche e cammelli. Quello che per tante famiglie che vivono in povertà viene considerato un buon partito.
“Tre anni dopo il matrimonio, i miei genitori hanno avuto un figlio, il mio fratello maggiore, che è ancora vivo. Poi, per dieci anni, la maledizione si è abbattuta su di loro. Hanno avuto sette femmine e tre maschi, tra cui due coppie di gemelli. Nessuno è sopravvissuto. L’unica che ha superato con successo l’anno d’età e sconfitto tutte le malattie dell’infanzia è morta annegata sei anni dopo”, scrive la scrittrice nel suo libro raccontando anche un altro spaccato della sua infanzia fatto di violenze e soprusi.
“Anche mio padre, a suo modo, era un brav’uomo. Gli piaceva rispettare i costumi locali. Uno di questi consisteva nel picchiare la propria moglie. Quando i figli morivano alla nascita, qualche settimana o qualche mese dopo trasferiva il suo dispiacere sulle spalle di mia madre e la pestava”.
“Tuo padre è crudele, mi dice lei un giorno in uno dei suoi rari momenti di abbandono e di scoraggiamento. Ho sette anni e non capisco tutto, ma so già che non voglio una vita come quella, una vita come la sua. Mia madre ha perso i suoi genitori quando era ancora una bambina e poi ha perso i suoi figli. La sua vita si riduce alla perdita di chi le è più caro. Non parla molto delle sue sofferenze, il suo destino è subire, tacere; e quando parliamo del passato, spazza l’aria con un gesto della mano: «Giorni infelici… Non guardare mai al passato, vai verso il futuro, cerca di avere una bella vita»”, si legge ancora.
Per questo essere un bacha posh per molte bambine significa assaporare un po’ di libertà, che gli verrà negata nel momento in cui agli occhi della società torneranno ad essere femmine. Ma in tutto questo non c’è nessuno sprazzo di felicità, quanto di rassegnazione. Le bambine non hanno scelta.
“Nella nostra provincia non c’è niente di strano nel dichiarare che una femmina è un maschio. Al villaggio siamo una quindicina, vestite come i nostri fratelli, in shalwar kameez blu, una tunica lunga con pantaloni. Ci sono Jania e Sakina, Matgullah, Geengatta, Sharkhamatha, Kamala, Mamura. Le famiglie senza figli e senza discendenza hanno il diritto di travestire una delle loro figlie per salvare l’onore. Si dice anche che questo possa allontanare la malasorte dai figli futuri. Malasorte che consiste nell’avere una femmina. Una superstizione che nasconde una ragione molto più pragmatica: vestire una femmina da maschio le permette di aiutare la famiglia, perché può lavorare e portare a casa del denaro”, si legge ancora.
A dieci anni però, quando si entra nella pubertà, la vita cambia nuovamente. Le bambine si velano, rinunciano a poco a poco alla libertà. Abbandonano i prati e i giochi per entrare in quella che, da quel momento, sarà per sempre la loro vita: i muri di casa. Imparano a cucire, si occupano dei più piccoli, aiutano la madre. Restano pochi mesi prima di abbracciare il loro destino di donne: a dodici anni indossano il burqa e non escono senza la presenza di un uomo.
“Quando avremo dieci anni, torneremo a essere delle vere ragazze. Mia cugina serviva il tè qui fino all’anno scorso, ma adesso è troppo grande. Porta il velo e aiuta sua madre in casa. Vedrai, anche tu sarai obbligata a ridiventare Ukmina. Altrimenti Allah ti punirà, e soprattutto i mullah!. Kamala ha ragione. In effetti ho notato che la maggior parte delle femmine lascia gli abiti maschili intorno ai dieci anni, ma conosco una certa Bibi che ha mantenuto l’aspetto di un uomo. Ha l’età di mia madre, lavora al mercato e ha la forza di un uomo. Si dice che abbia ucciso un tizio durante un litigio riguardo a certi terreni”.
Le bambine come Ukmina non hanno identità, fanno tristemente parte del paesaggio.
“Vedo crescere il divario tra le due condizioni: l’indipendenza e l’autonomia che accompagnano la condizione maschile, la reclusione e l’alienazione che costituiscono l’esistenza femminile. Nella mia mente di bambina, non vedo nulla di male nell’immaginare un destino diverso rispetto a quello casuale che la mia nascita mi ha dato”.
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