La pandemia di peste ha lasciato un’impronta genetica che ci colpisce ancora quasi 700 anni dopo

La morte nera, the Black Death, colpisce ancora: la devastazione che seguì alla pandemia di peste del ‘300 avrebbe infatti lasciato un’impronta genetica così incredibile sull’umanità che impatta ancora sulla nostra salute. Quasi 700 anni dopo

Uno dei momenti più significativi, più letali e più cupi della storia umana, tanto che si stima che, a causa della peste bubbonica, siano morte fino a 200 milioni di persone. Com’era possibile, dunque, che un evento di così simile portata non impattasse in qualche modo sull’evoluzione umana?

Se lo sono chiesto i ricercatori dell’Università di Chicago, che hanno identificato i tratti genetici che hanno determinato chi è sopravvissuto alla peste nera più di 700 anni fa, ma che oggi sono associati a una maggiore suscettibilità ad alcune malattie autoimmuni.

Questa è, per quanto ne so, la prima dimostrazione che effettivamente la peste nera è stata un’importante pressione selettiva all’evoluzione del sistema immunitario umano, spiega Luis Barreiro, professore di medicina genetica presso l’Università di Chicago Medical Center negli Stati Uniti e co-autore senior dello studio.

Attraverso lo studio del DNA secolare di vittime e sopravvissuti alla peste bubbonica avvenuta nel XIV secolo, insomma, gli studiosi hanno scoperto che le persone con quella che gli scienziati descrivono come una variante “buona” di un particolare gene, noto come ERAP2, sono sopravvissute a tassi molto più elevati.

Cosa fu la peste nera

Una delle più grandi epidemie su cui si è certi  e che uccise – anche se non c’è un numero preciso della popolazione a quei tempi – almeno un terzo degli europei nel XIV secolo.

A impiegare per la prima volta il termine “morte nera” furono cronisti danesi e svedesi (dal latino atra mors, letteralmente “morte nera”, dove l’aggettivo ater ha il significato di “triste”, “atroce”) riferendolo alla peste del 1347-1353 per rimarcare la devastazione di tale epidemia.

Agli inizi del 1800 la definizione fu ripresa dal medico tedesco Justus Friedrich Karl Hecker, che con l’articolo sull’epidemia di peste del 1347-1353, “La morte nera”, diede grande risonanza alla faccenda. Da allora i termini Black death o Schwarzer Tod vennero utilizzati per indicare l’epidemia di peste del XIV secolo.

Lo studio

Per lo studio, pubblicato su Nature, sono stati estratti più di 500 campioni di DNA antico dai resti di individui, compresi quelli sepolti nelle fosse della peste di East Smithfield a Londra, che furono usate per sepolture di massa nel 1348 e nel 1349. I campioni provenivano da persone che erano morte prima del peste, morte a causa di essa o sopravvissute ad essa.

Sono stati quindi ricercati i segni di un eventuale adattamento genetico correlato alla peste, che è causata dal batterio Yersinia pestis. Secondo i risultati, avere due copie del gene “buono” ERAP2 avrebbe permesso agli individui di produrre proteine ​​funzionali, molecole che aiutano il sistema immunitario a riconoscere un’infezione.

peste nera

©Nature

Queste copie ERAP2 avrebbero consentito una “neutralizzazione più efficiente di Y. pestis da parte delle cellule immunitarie”, secondo gli scienziati, e grazie alla presenza della variante le persone avevano circa il 40% di probabilità in più di sopravvivere alla Morte Nera rispetto a chi non l’aveva.

È un effetto enorme, è una sorpresa trovare qualcosa del genere nel genoma umano, ha concluso Barreiro. Questo gene, infatti, sarebbe in grado di produrre le proteine che distruggono i microbi invasori, mostrare i frammenti al sistema immunitario, e stimolarlo a riconoscere e neutralizzare il nemico in modo più efficace.

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Fonte: Nature

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