Il marchio numero 1 in fatto di ultra fast fashion sostiene la ricerca oncologica e incoraggia le persone a fare prevenzione. Un bel paradosso se si considera che quello che produce è una delle principali cause di inquinamento
Beh, se qualche mese fa la produzione super economica del colosso dell’ultra fast fashion parlava finanche di moda circolare e di responsabilità ambientale, non ci si deve stupire più di tanto se ora Shein dichiara (anche) di essere vicino alle pazienti oncologiche.
Una bella e sostanziosa operazione di greenwashing che, se ci si sofferma col pensiero, non si discosta di molto dalle intenzioni di Coca-Cola che annuncia di essere uno degli sponsor della Cop27 o delle più svariate compagnie aeree che dichiarano di volare a… zero emissioni.
Insomma, più finto della parrucca di Moira Orfei è l’impegno dell’e-commerce internazionale per antonomasia di essere accanto e a sostegno delle donne colpite da tumore al seno, stringendo nuovamente una partnership con la Fondazione Veronesi e non operare distinzione alcuna al suono di “Wear Your Wonderful“, che “incoraggia le persone ad esprimersi senza riserve” e le donne alla prevenzione.
Almeno è questo il suo intento dichiarato: mettere la moda a disposizione della sua community in modo inclusivo. Tutte le donne devono avere la possibilità di sentirsi a proprio agio, indossare ciò che desiderano e raccontarsi attraverso l’abbigliamento, si legge nella nota stampa, in cui si spiega che SHEIN, tra le altre cose, finanzierà nel 2023 una ricercatrice nel suo progetto scientifico volto all’avanzamento degli studi nel campo dell’oncologia femminile.
Così, senza entrare nel merito di Fondazione Veronesi che avrà pure l’esigenza del sostegno di colossi simili, ci si chiede come faccia un colosso come SHEIN, che aumenta le vendite del 100%, arrivando nel 2022 a essere uno dei più grandi marchi di distribuzione di moda al mondo, a ritenersi attenta alla salute delle donne quando non lo è nemmeno dei suoi lavoratori.
La salute dei lavoratori (quale salute?)
Non solo vale più di Zara e H&M messe insieme, ma SHEIN è l’e-commerce più popolare al mondo in oltre 220 Paesi. Ma, come sempre accade in queste realtà di “moda” veloce, sono i lavoratori che si occupano di assemblare le collezioni in condizioni inimmaginabili a pagare il prezzo più alto.
L’organizzazione indipendente Public Eye nel 2021 ha condotto un’inchiesta per provare a fare luce sul lato più oscuro che si cela dietro questo colosso del taglia e cuci last minute.
I ricercatori hanno individuato 17 aziende fornitrici, 7 sono dislocate tra i vicoli del distretto di Panyu, nella provincia di Guangzhou, diventato il centro di produzione dal 2015. È qui, circa 100 km a nord di Hong Kong, che migliaia di lavoratori cinesi provenienti da altre province arrivano per guadagnare quanto più è possibile per sfamare la propria famiglia. Così, accettano di trascorrere fino a 12 ore al giorno a tagliare e a assemblare tessuti per realizzare i sogni in poliestere dei più giovani.
Ne abbiamo parlato dettagliatamente qui: Il lato oscuro di Shein: operai ammassati e turni di 12 ore per realizzare i nostri “sogni” di poliestere
E la salute delle donne?
Chi propone abiti a basso prezzo, pubblicizza collezioni necessariamente realizzate dalla plastica. Per forza. Con un top in poliestere a 5 euro che arriva con una spedizione dall’altro capo del mondo, si potrà mai veramente parlare di un credibile circuito virtuoso della sostenibilità e di pezzi di qualità? Certo che no, e lo abbiamo detto più volte.
Ed è dunque quella stessa insostenibilità che genera un Pianeta malato e, morale della favola, tumori. Proprio come Philip Morris che investe sugli inalatori medici ma vende ancora miliardi di sigarette, per dirne una.
L’impatto ambientale di ciò che indossiamo ogni giorno è ancora troppo sottovalutato e partnership come quelle a sostegno di donne malate di cancro potrebbe gettere pericolosamente fumo negli occhi. Quello che dovremmo sapere, invece, è che il consumo di tessili solo in Europa ha il quarto maggiore impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici, dopo cibo, alloggi e mobilità, e che il settore della moda è anche la terza area di consumo di acqua e suolo e la quinta per uso di materie prime.
E non solo: un aspetto tra i più tristi della fast fashion è che i vestiti e gli accessori finiscono presto in discarica e devono essere smaltiti, con tutto ciò che questo comporta in termini ambientali (in media ogni cittadino europeo butta via 11 kg di vestiti, scarpe e altri prodotti in tessuto ogni anno).
Leggi anche: La moda usa e getta sta riempiendo il Pianeta di rifiuti tessili: buttiamo l’811% di vestiti in più rispetto al 1960
Per contrastare questo problema, l’Unione europea ha proposto che le grandi aziende rivelino quante scorte invendute inviano in discarica, come parte di un piano ad ampio raggio per bloccare la cultura dell’usa e getta.
Ma intanto la super produzione dannosa per l’ambiente e per la nostra salute continua a proliferare e con essa il paradossale impegno in progetti volti a tutelarla. La salute. E no, non basta una partnership per ripulirsi la coscienza.
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