Così i social network sono entrati a piè pari nella guerra, cambiandola

Sono ormai anni che anche la classe politica e non solo battibecca o dà annunci formali a suon di tweet. È il mondo che cambia e con sé il modo di comunicare. Lo abbiamo visto con la pandemia, lo vediamo ora con la guerra. Notifiche costanti in cui non si risparmia proprio nessuno

C’è già qualcuno che l’ha definita “Guerra social”, riferendosi all’amplissimo spazio che si sta lasciando ai social network e al loro modo di guidare la narrazione della guerra in Ucraina. Da Telegram a Twitter fino ad arrivare persino a TikTok e Google Maps, il mondo segue attraverso le piattaforme, dribblando tra migliaia di fake news. Mentre il settore dell’informazione dà traccia di ogni singolo avvenimento in ogni singolo istante.

Il web si è autoattribuito il ruolo di burattinaio che gestisce i fili di chi deve dire cosa. A partire dal Presidente ucraino Zelensky, che il 25 febbraio ha postato un video in cui diceva di essere tra coloro che difenderanno strenuamente Kiev dopo che i media russi avevano suggerito che fosse fuggito dal Paese, all’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) – Filippo Grandi – che snocciola numeri di profughi cinguettando tweet, fino a giungere a Papa Francesco che dedica i suoi tweet a appelli accorati perché si fermi la guerra tradotti anche in russo e ucraino.

Cosa significa tutto ciò? Che ora più che mai i social media sono il posto in cui si lascia in tempo reale, realissimo, ogni tipo di informazione e dichiarazione, ogni tipo di smentita o di analisi più o meno accurata. Non serve nient’altro che un account.

Ma attenzione. Il marasma generale di informazioni e l’abbondanza di notizie – e il conseguente fenomeno del “web surfing” per cui sono capace di scorrere da una pagina all’altra senza soluzione di continuità e in maniera automatica – spesso non portano a nulla. O non è così?

Beh, sappiate che – in questo caso (anche?) – gli stessi social network hanno fatto il loro ingresso a piè pari nella guerra (in senso lato, ovvio) limitando il flusso di disinformazione e dando voce al popolo ucraino, oltrepassando la Russia che in fatto di revisioni del web era un asso.

Nei giorni immediatamente successivi all’invasione russa dell’Ucraina, Meta ha affermato di aver scoperto una rete “relativamente piccola” di circa 40 account, pagine e gruppi che si atteggiano a testate giornalistiche e utilizzano identità false su Facebook e Instagram, si leggeva su The Guardian qualche giorno fa.

È successo allora che una marea di video postati dagli ucraini in tempo reale su Facebook & Co siano riusciti a ridurre il peso della propaganda putiniana e a spostare l’opinione pubblica globale dalla parte dell’Ucraina. Di contro, Putin ha cominciato a limitare l’accesso a Facebook in risposta all’aggiunta di etichette di avviso di disinformazione ai contenuti su quattro account di notizie controllati dal governo: l’agenzia di stampa statale RIA Novosti, il canale televisivo del Ministero della Difesa, Zvezda; e le testate giornalistiche online russe, Lenta.ru e Gazeta.ru.

E non solo, Twitter ha annunciato che vieterà gli annunci sulla sua piattaforma in Russia e Ucraina, Google di bloccare l’accesso all’app Russia Today nell’app store Android in Ucraina, mentre il fondatore di Telegram, Pavel Durov, ha spinto gli utenti ucraini e russi a diffidare delle informazioni condivise sulla piattaforma e lanciato l’idea di limitare parzialmente o completamente alcuni dei suoi canali.

Una guerra che si combatte anche sui social, dunque, e di cui, probabilmente non conosceremo mai la vera origine e la possibile evoluzione. I cambiamenti corrono veloci così come le notizie su quegli stessi social. Sta a noi discernere e scremare. Ma adesso la domanda è: abbiamo tutti i mezzi per farlo davvero?

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