A 34 anni dal referendum che ha vietato il nucleare in Italia ancora non abbiamo un Deposito per stoccare le scorie radioattive
![rifiuti radioattivi Italia](https://www.greenme.it/wp-content/uploads/2021/03/shutterstock_1927095437.jpg)
©Shutterstock/SvedOliver
Trentaquattro anni fa con un referendum promosso dopo il disastro di Chernobyl, in Ucraina, del 1986, dicemmo no alle centrali nucleari. Tra il 1988 e il 1990 le 4 centrali di Caorso, Trino, Latina e Garigliano furono chiuse e i cantieri degli impianti in costruzione interrotti. Ma che cosa è successo dopo? Dove sono andati a finire i rifiuti radioattivi?
Affidati, alla Sogin, la Società di gestione impianti nucleari nata nel ’99 per smantellare le centrali di e gli impianti ex-Enea, sono ancora lì con costi che copriamo noi, ogni bimestre nella bolletta elettrica.
Va da sé, quindi, che questi rifiuti debbano prima o poi trovare una collocazione definitiva.
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All’inizio dell’anno era stata pubblicata la CNAPI, la Carta nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico elaborata da Sogin, un deposito progettato per contenere rifiuti a bassa e media attività, mentre per quelli ad alta si è in attesa di un deposito geologico internazionale, rimasta secretata per sei anni. Sei anni che hanno visto – tra l’altro – l’avvicendamento di tre Governi e tanti ricorsi al TAR dei singoli Comuni, le petizioni e le raccolte di firme lanciate nel nostro Paese.
Le scorie nucleari in Italia
Secondo dati aggiornati a dicembre 2019 dell’Isin, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, in Italia ci sono poco meno di 31mila metri cubi di materiale radioattivo (2,9 milioni di Giga-Becquerel, unità di misura che esprime la “carica” dei rifiuti radioattivi). Da dove arriva?
In parte dalla necessità di smaltire ancora i rifiuti radioattivi prodotti dalle vecchie centrali e, per la maggior percentuale, dal sempre più diffuso impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti nelle applicazioni mediche, nell’industria e nella ricerca. La nuova classificazione prevede la loro suddivisione in 5 classi, in base alla radioattività e al tipo di deposito necessario al loro stoccaggio, temporaneo o definitivo:
- rifiuti radioattivi a vita media molto breve
- ad attività molto bassa
- di bassa attività
- di media attività
- di alta attività, che sono invece da destinare a un deposito geologico ancora da individuare in Europa
I nostri rifiuti radioattivi si trovano al momento in 24 impianti (tra cui le quattro ex centrali nucleari e i due centri di ritrattamento dei combustibili irraggiati di Saluggia e di Rotondella) in 8 Regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia), cui si aggiungono 95 strutture che utilizzano “sorgenti di radiazioni”, ossia materie radioattive e macchine generatrici di radiazioni ionizzanti. Molte di queste strutture temporanee hanno molti punti critici in fatto di impianti e di localizzazione, che le rendono inidonee e pericolose nella gestione dei rifiuti radioattivi. Da qui la necessità di un deposito nazionale unico.
Legambiente fu chiara ad aprile, quando – dal rischio idrogeologico a quello di incidente rilevante, dalla contemplazione delle aree protette all’adozione di criteri più chiari e trasparenti – elencò i diversi elementi da considerare ancora più attentamente nel percorso verso la realizzazione del deposito nazionale.
Eppure niente, si perde tempo e 34 anni dopo la chiusura delle centrali i rifiuti radioattivi sono ancora un problema. Non si riesce far capire che un deposito è ben più sicuro rispetto ai rischi a cui tutta la popolazione oggi è esposta. E il tempo passa.
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