Alla firma dell'accordo per la tassazione unica delle multinazionali, il patto rischia di saltare per l'opposizione di tre paesi UE
Alla vigilia della firma dell’accordo per la tassazione unica delle multinazionali in 130 paesi del mondo, il patto rischia di saltare per l’opposizione di tre paesi UE, che vedrebbero sfumare i vantaggi per le loro economie derivanti da sistemi fiscali permissivi.
La scorsa settimana, 130 paesi e giurisdizioni di tutto il mondo (fra cui anche l’Italia) hanno aderito a un accordo globale che impone una tassazione minima del 15% alle grandi multinazionali indipendentemente dalla posizione delle loro sedi legali per impedire che queste evadano le tasse posizionandosi in paesi con un sistema fiscale poco rigido (nei cosiddetti paradisi fiscali).
È un accordo da molti definito storico, perché è riuscito a coinvolgere paesi che insieme rappresentano il 90% del Prodotto Interno Lordo Mondiale, ed è frutto di anni di negoziazioni, che hanno subito un’accelerazione dopo l’avvento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti e grazie a una rinnovata collaborazione dei paesi dell’UE che si sono coalizzati contro le grandi imprese del mondo con ricavi annui di almeno 20 miliardi di euro e un margine di profitto di almeno il 10%.
L’accordo si struttura in due punti principali. Il primo punto assicura una distribuzione più equa dei ricavi dalle tasse che le multinazionali devono pagare nei diversi paesi: ciò consentirebbe di redistribuire circa 100 miliardi di dollari di tasse l’anno, secondo le stime dell’OCSE, fra i paesi in cui le multinazionali hanno sede fisica (legale) e quelli in cui le imprese operano.
Il secondo punto, il più discusso da alcuni paesi, impone appunto un’aliquota minima globale del 15% sui profitti d’impresa. Si tratta di un’aliquota superiore a quella che le multinazionali pagano in alcuni paesi UE – proprio quelli che sono contrari all’accordo, ovviamente – come ad esempio Irlanda (dove l’attuale tassazione minima è al 12,5%) e Ungheria (9%). Oltre a Irlanda e Ungheria, anche l’Estonia si è detta contraria all’adesione a questo accordo.
L’Irlanda ha un ottimo motivo per non aderire all’accordo. Come abbiamo detto, offre una tassazione minore alle imprese multinazionali che ospita sul territorio nazionale, oltre a concedere un’aliquota dimezzata (6,25%) alle imprese che traggono profitto da brevetti (come i colossi farmaceutici Pfizer BionTech e Johnson&Johnson) e software (come le società che offrono servizi digitali attraverso Internet – ad esempio Google, Facebook, Microsoft e Apple).
Con il suo sistema fiscale molto vantaggioso, il paese p stato in grado di attrarre entro i propri confini le sedi europee delle grandi multinazionali americane. Si pensa, ad ogni modo, che il paese scenderà a un qualche tipo di compromesso, visto il bisogno di supporto di UE e Stati Uniti nelle trattative con il Regno Unito successive alla Brexit: il ministro delle Finanze Paschal Donohoe si è detto infatti favorevole a discutere l’accordo.
L’Ungheria, invece, ha finora tratto grandi benefici economici dalla permissiva politica economica promossa dal premier Viktor Orbán e questo spingerebbe il paese a remare contro l’accordo sulla tassazione minima alle multinazionali: se questa passasse, non esisterebbero più condizioni vantaggiose per le imprese multinazionali a porre le proprie sedi legali entro i confini ungheresi e sarebbero costrette a delocalizzare.
L’Estonia, infine, non presenta aliquote bassissime (vanno dal 14 al 20%), ma le tasse si pagano solo sui profitti distribuiti: in pratica, se un’impresa decide di reinvestire i propri profitti, questi non vengono tassati (spostando così il momento della tassazione alla distribuzione finale del profitto – un processo che fa slittare la tassazione anche di anni). Il ministro delle Finanze estone non ha espresso la chiara volontà del paese di raggiungere un accordo comune con gli altri paesi, definendo il patto ‘troppo vago’.
Oltre a questi tre paesi europei, ci sono altri paesi nel mondo che non hanno aderito all’accordo (che verrà firmato il prossimo 9 luglio in occasione del G20 di Venezia) – come Sri Lanka, Nigeria e Perù, oltre ai paradisi fiscali di Barbados, Saint Vincent e Grenadine.
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