L’olio di cocco peggio di quello di palma per la biodiversità. Lo studio scatena le polemiche

Una nuova ricerca, molto discussa e controversa, sostiene che l'olio di cocco sia più pericoloso di quello di palma per ambiente e biodiversità

L’olio di palma ha una cattiva reputazione, ma è peggio dell’olio di cocco? A detta di un nuovo studio pubblicato di recente la risposta è no: l’olio di cocco rappresenterebbe infatti una minaccia ben più grave per la biodiversità. Su questi risultati si è acceso però un forte dibattito.

Un nuovo studio, pubblicato il 6 luglio su Current Biology, sostiene che la produzione di olio di cocco stia mettendo a rischio la biodiversità 5 volte in più rispetto all’olio di palma. In pratica la ricerca, il cui autore principale è Erik Meijaard, ritiene che l’olio di cocco, alternativa considerata migliore a livello ambientale, in realtà metterebbe a rischio più specie rispetto al tanto discusso olio di palma.

Il documento ha scatenato però un feroce dibattito tra gli esperti, molti dei quali hanno accusato gli autori di promuovere statistiche dubbie e un tentativo di “assolvere” l’olio di palma. E il dubbio, legittimo, viene un po’ a tutti considerando che il sopra citato professor Meijaard, dirige il Borneo Futures, una società di consulenza con sede nel Brunei, ma è anche presidente della Oil Palm Task Force dell’IUCN. Insomma è una persona direttamente interessata alla questione.

Ma torniamo allo studio. Come afferma Mejaard, circa 12,3 milioni di ettari di terra vengono utilizzati per coltivare palme da cocco, rispetto a 18,9 milioni per la palma da olio. L’olio di cocco, usato in una vasta gamma di alimenti e prodotti cosmetici e famoso per i suoi benefici, gode di una reputazione molto migliore. I consumatori lo associano più alle isole tropicali e alle spiagge di sabbia bianca che alla deforestazione legata alla piantagione delle palme da cui si ricava.

Un successo non meritato secondo lo studio, almeno in quanto a conseguenze per l’ambiente. Infatti, gli autori hanno calcolato il numero di specie minacciate dalla coltivazione di sette colture di olio vegetale e, secondo i risultati, l’olio di cocco minaccia 20,3 specie per ogni milione di tonnellate di olio prodotto. Per l’olio d’oliva e l’olio di palma, questi numeri sono rispettivamente di 4,1 e 3,8 specie; per l’olio di girasole, è 0,05.

olio di cocco studio

© Current Biology

Secondo le informazioni supplementari del documento, il numero relativo all’olio di cocco è in realtà 18,3, non 20,3; quando Science ha chiesto informazioni sulla discrepanza, la coautrice Jesse Abrams dell’Università di Exeter ha riconosciuto che il calcolo contiene un errore che gli autori avrebbero chiesto alla rivista di correggere. Ma 18.3 è ancora un numero molto alto.

“Il risultato del nostro studio è stato una sorpresa”  ha dichiarato Meijaard. Il fatto è che il cocco viene coltivato in particolare sulle  isole tropicali “molte delle quali possiedono un numero notevole di specie che non si trovano in nessun’altra parte del mondo”.

Alcune specie si sono già estinte perché il loro habitat ha lasciato il posto alla palma da cocco, sottolinea Meijaard, tra cui l’occhio bianco Marianne (Zosterops semiflavus), un uccello nelle Seychelles e la volpe volante di Ontong Java (Pteropus howensis), che sono state avvistate l’ultima volta nel 1945.

Oggi, le piantagioni di cocco minacciano il tragulo delle Filippine (Tragulus nigricans) e il tarsio di Sangihe  (Tarsius sangirensis), un piccolo primate endemico dell’isola indonesiana di Sangihe, secondo la valutazione della IUCN.

Ma altri esperti sostengono che lo studio dipinge un’immagine fuorviante della questione. La stragrande maggioranza delle specie minacciate dalla palma da cocco vive in piccole nazioni insulari che insieme producono solo l’8% della produzione globale di olio di cocco, afferma Meine van Noordwijk, ricercatore senior presso il World Agroforestry Center.

Quasi l’80% dell’olio di cocco proviene dall’Indonesia, dalle Filippine e dall’India. Escludere i piccoli produttori dall’analisi produrrebbe un risultato molto diverso, afferma Van Noordwijk sottolineando poi che i cocchi vengono spesso piantati insieme ad altre colture ed è quindi difficile valutare il danno della singola produzione di olio di cocco.

Sheherazade, un biologo sul campo che dirige Tambora Muda Indonesia, un’organizzazione per giovani ambientalisti indonesiani, è d’accordo:

“Abbiamo bisogno di un’analisi spaziale più fine per discernere quale coltura favorisce la deforestazione” ha dichiarato.

Sheherazade osserva poi che il quadro è quasi esattamente l’opposto di quello valutato da una metrica diversa, più comunemente usata: l’olio di palma minaccia 17 specie per milione di ettari di colture coltivate, rispetto a 5,3 per l’olio di cocco. Ma Meijaard afferma che la quantificazione del rischio di specie per milione di tonnellate di olio è più rilevante che per ettaro.

Anche il primatologo Adriano Lameira dell’università di Warwick, ha espresso con sarcasmo un commento al nuovo studio che, a suo dire, potrebbe diventare il riferimento ideale per l’industria del legno quando deve giustificare la distruzione dell’habitat.

 

Alcuni critici hanno ovviamente sottolineato anche il potenziale conflitto di interessi di Meijaard che ha ricevuto finanziamenti da una società indonesiana di olio di palma e dalla Roundtable for Sustainable Palm Oil, un grande gruppo che cerca di rendere il settore più rispettoso dell’ambiente.

Il coautore Douglas Sheil, professore di conservazione tropicale presso l’Università norvegese di scienze della vita, afferma che gli autori non hanno cercato di diffamare le noci di cocco, ma hanno invece voluto consentire ai consumatori di valutare meglio quali oli vegetali acquistare.

“I consumatori mancano di una guida obiettiva sugli impatti ambientali della produzione agricola, compromettendo la loro capacità di prendere decisioni informate”, afferma Sheil. Il cocco è visto come un raccolto innocente perché “i consumatori globali fanno molto affidamento sulle informazioni che ricevono dai media, che sono spesso fornite da coloro che hanno interessi acquisiti”.

Gli autori concordano con i critici sul fatto che i dati nel documento non sono perfetti e chiedono ulteriori ricerche.

Una cosa è certa, dobbiamo valutare bene le alternative che scegliamo rispetto all’olio di palma e non giudicare per partito preso. Sarebbe importante però, per decidere al meglio e con consapevolezza, che le ricerche fossero del tutto indipendenti.

Fonti: The Conversation / Science

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