Nella tribù indigena Kaiowá tante donne rimaste da sole non posso mantenere i loro figli, così gli vengono strappati e non li rivedranno mai più
Come se non fosse sufficiente aver distrutto le loro terre ancestrali, alle donne indigene vengono strappati dalle braccia anche i bambini. Un dramma enorme di cui nessuno parla, che porta i nomi di Elida o Florencia,
Bimbi che non rivedranno più le loro mamme per un destino ingiusto, che non ha niente a che vedere con i maltrattamenti. Nella tribù indigenatante donne rimaste da sole non posso mantenere i loro figli, così gli vengono strappati e, a distanza di anni, il ricordo di quella separazione è una ferita aperta. Ma dietro questa pratica assurda si nascondono storie di depauperazione delle risorse e lotta contro le lobby che vogliono a tutti i costi le terre ancestrali.
Nel 2015 a Élida de Oliveira è stato portato via il suo bambino. Il padre del piccolo l’aveva lasciata quando aveva scoperto che era incinta del suo settimo figlio. In una casa di plastica e teloni nello stato del Mato Grosso do Sul noto come Ñu Vera, appena fuori dal perimetro della riserva più popolata del Brasile, la Dourados Indigenous Reserve, Élida de Oliveira senza acqua, né elettricità faceva ogni sforzo per poter nutrire i suoi figli.
Ad appena una settimana dal parto, un agente sanitario aveva chiesto di portare il bambino in clinica per vaccinarlo, emettere un certificato e verificare lo stato di salute. Ma poi le cose non erano andate proprio così. La donna è stata poi chiamata dai servizi sociali e il suo bambino non l’ha rivisto più. Da quando i portoghesi hanno colonizzato il Brasile circa 520 anni fa, gli indigeni hanno lottato per riguadagnare i propri diritti, in particolare le terre ancestrali che sono alla base della loro cultura e della loro connessione con il cibo, la famiglia, la lingua e la preghiera. Il governo di Bolsonaro sta attuando delle politiche che non agevolano le tribù e tolgono sempre più spazio. Così le famiglie non sono in grado di garantire il sostentamento ai loro figli. Bambini che vengono allontanati dai loro genitori a un ritmo allarmante. E la storia di Élida de Oliveira è l’emblema di questa piaga.
Una mamma che per ore ha aspettato in clinica il ritorno del suo neonato e che si è chiesta cosa avrebbe potuto fare di più. Pochi soldi, ma tanta dignità per mantenere da sola gli altri sei figli. Nella sua casa di plastica e legno aspettava invano una lettera in cui le si dica dov’è il bambino. Aveva sentito parlare di altri bambini presi dalle loro famiglie a Ñu Vera e nella riserva di Dourados, ma nessuno sembrava sapere dove fossero finiti. Dopo un’indagine del Consiglio Missionario Indigeno (Cimi) che ha creato una rete di supporto per Oliveira, la donna ha scoperto che il bambino era stato dato a una casa famiglia perché lei non era in grado di garantirne il sostentamento. E anche dopo che l’ha trovato, le è stata negata la custodia. Oggi può soltanto portargli biscotti, caramelle e yogurt a Lar Santa Rita, ma il bambino non parla la sua lingua né conosce la sua cultura.
Per Monica Roberta Marin de Medeiros, direttrice di Lar Santa Rita, assicurare che i bambini indigeni del rifugio mantengano i contatti con le loro culture non è una priorità assoluta. Mentre attivisti che lavorano nel sistema di previdenza sociale affermano che è una violazione dei diritti dei bambini indigeni interrompere le loro connessioni con le loro famiglie, comunità, lingua e cultura.
Una storia simile a quella di Florencia Reginaldo, che vive nella Riserva indigena dei Dourados, che si prendeva cura dei figli di sua sorella Elisabete quando le autorità presero tutti i bambini. Le madri single come Elisabete devono spesso lasciare i loro figli con altri membri della famiglia quando vanno al lavoro. Ma le accuse di abbandono di minori hanno portato i servizi sociali a portare via i bambini. La donna alla fine è riuscita a riavere la custodia dei suoi figli, ma questo rappresenta veramente un’eccezione in una riserva sempre più distrutta dalle lobby che tolgono terra ancestrale alle tribù indigene.
Fonte: National Geographic
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