Il campione Kobe Bryant è morto in un tragico incidente esattamente tre anni fa, ma non moriranno mai le lezioni di vita che ha lasciato dentro e fuori dal campo
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Il 23 agosto del 1978, 43 anni fa, nasceva sotto il segno del fiero Leone, Kobe Bean Bryant, in quel di Filadelfia. Amava il basket il piccolo Kobe, passione ereditata in famiglia dove la madre era sorella dell’ex cestista Chubby Cox, e il padre un famoso giocatore di pallacanestro.
Kobe, così vollero chiamarlo i genitori, come il nome del taglio di carne giapponese che assaporarono in un ristorante. Fu una scelta azzeccata come quella di trasferirsi in Italia quando era ancora bambino, per motivi professionali. Il piccolo campione seguì papà dai 6 ai 13 anni, da nord a sud, facendo tappa a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia e in altre città, giocando a basket appena poteva. Ancora non sapeva che, al rientro in America, sarebbe diventato un campione di fama internazionale ma il sogno esisteva già, era convinto che prima o poi sarebbe diventato il giocatore più bravo del mondo. Aveva ragione, si sarebbe presto dimostrato un vero Leone, come il segno zodiacale sotto cui era nato.
Fu così che, passo dopo passo, con fatica, determinazione e tanto impegno, Kobe, che si era autoaffibbiato il soprannome di “Black Mamba“, riuscì a conquistarsi una carriera sfavillante: 20 anni di carriera nella stessa squadra, i Los Angeles Lakers, 5 titoli Nba, 2 ori olimpici con gli Stati Uniti, ritenuto il terzo miglior marcatore nella storia dell’NBA, dopo Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone, con 33.643 punti. Il suo sogno si era esaudito!
Kobe era innamorato non solo dello sport ma di ogni singola giornata ed è per questo che lo amavano tutti, non era un semplice Campione di Basket, era un Campione di Vita che insegnava a credere in se stessi.
Una mentalità vincente la sua, raccontata nel libro, The Mamba Mentality (linkaffiliazione) dove raccolse il segreto del suo successo, dedicando i consigli alla prossima generazione di grandi atleti. Augurava loro di avere la forza necessaria per tracciare la propria rotta, e di farlo meglio di come aveva fatto lui stesso. Perché Kobe non era un egoista, non voleva essere l’unico Campione, ma far crescere tanti Campioni capaci di rendere il mondo, e lo sport, migliori. Scriveva che per lui tutto era cominciato come un sogno, e che per realizzarlo capì di dover adottare una mentalità vincente, dedicandosi ad esso con tutte le sue forze, tanto da esserne ossessionato. Perché è così che si esaudiscono i sogni, credendoci fino in fondo.
Avrebbe potuto vivere ancora Kobe ma il destino se l’è portato via in un tragico incidente di elicottero che ha spento la sua luce e quella della secondogenita Gianna, di 13 anni. Una morte inaspettata che ha scosso il mondo intero. Perché Kobe era un grande uomo prima ancora che un grande giocatore. E questi che seguono sono 10 insegnamenti che ci ha lasciato e che non moriranno mai.
Per esaudire i sogni bisogna sentirsi “vincenti“
Nel suo libro, The Mamba Mentality, Kobe scriveva che la sola via per realizzare il suo sogno, diventare un Campione di Basket, era adottare una mentalità vincente e focalizzarsi sugli aspetti mentali del gioco. Per lui la mentalità vincente non riguarda “un risultato da prefiggersi” ma il processo che porta a quel risultato, il percorso, l’approccio, un vero e proprio stile di vita.
I sogni si realizzano con impegno e dedizione assoluta
Kobe si diceva ossessionato dalla pallacanestro, ossessione che lo spingeva a dedicarvisi costantemente, senza mai demordere. Senza la dedizione assoluta e l’impegno non sarebbe mai arrivato al successo, le considerava componenti fondamentali del percorso, indipendentemente dal talento.
Bisogna fare quello che ci piace di più
Kobe diceva che il basket era la cosa che gli piaceva di più e sosteneva che fosse anche questo il segreto del successo, perché quando ti dedichi a qualcosa che ami, lo fai con tutto te stesso, ci metti l’anima e il cuore. Ed è normale che diventi un’ossessione.
Tant’è che quando decise di lasciare il basket nel 2015, “gli” scrisse una lettera d’addio come a un’innamorata, “Dear basketball“, da cui fu tratto un cortometraggio vincitore dell’Oscar, realizzato con il regista e animatore Glen Kean. A dimostrazione di quanto era grande il legame che lo univa a questo sport. Il testo venne pubblicato sul The Players’ Tribune:
“Caro Basket, sin dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzettoni di mio papà e a immaginare canestri decisivi per la vittoria al Great Western Forum,
mi è subito stata chiara una cosa: mi ero innamorato di te. Un amore così grande che ti ho dato tutto me stesso. Come un bimbo di sei anni, innamorato, non ho mai visto la luce in fondo al tunnel. Mi vedevo soltanto correre, e così ho corso. Su e giù per ogni campo, rincorrendo ogni pallone per te. Mi hai chiesto il massimo sforzo, così ti ho dato il mio cuore. Ho giocato quando ero stanco e affaticato, non perché fossero state le sfide a chiamarmi, ma perché TU mi hai chiamato. Ho fatto qualsiasi cosa per TE, perché così fanno le persone quando qualcuno le fa sentire vive (come hai fatto tu con me). Hai dato a un bimbo di sei anni il sogno di essere un giocatore dei Lakers e ti amerò sempre per questo. Ma non posso amarti in modo ossessivo per molto tempo ancora. Questa stagione è tutto quel che mi rimane da darti. Il mio cuore può reggere il peso, anche la mia mente, ma il mio corpo sa che è giunto il momento di salutarci. Ma va bene così. Sono pronto a lasciarti andare. Volevo che tu lo sapessi, così potremo assaporare meglio ogni momento che ci rimarrà da gustare insieme. Le cose belle e quelle brutte. Ci siamo dati l’un l’altro tutto. Ed entrambi sappiamo che, qualsiasi cosa farò, sarò sempre quel bambino con i calzettoni, il cestino della spazzatura nell’angolo e 5 secondi ancora sul cronometro, palla in mano. 5… 4… 3… 2… 1. Ti amerò sempre. Tuo Kobe.”
L’importanza del silenzio
Kobe si prendeva spesso pause di silenzio, per esempio prima delle partite, assaporando la calma del palazzetto vuoto o durante i sonnellini sul bus. Silenzio che riteneva fondamentale per ricaricarsi prima del gioco.
Bisogna piangere e poi rialzarsi dopo ogni caduta
La carriera di Kobe non fu costellata esclusivamente di successi, lungo il percorso affrontò cadute e fallimenti, alcuni dei quali interessarono la sua vita privata, come il processo per stupro e la perdita per aborto spontaneo di un figlio. Inoltre, a più riprese, subì gravi infortuni, ma ogni volta riuscì a rialzarsi. Credeva che ferite simili aiutassero a cambiare prospettiva e insegnassero a essere grati delle piccole cose, quelle a cui di solito nessuno dà importanza.
L’importanza dell’autostima
Lo psicologo George Mumford, che lavorò per anni sia con Kobe che con Michael Jordan, disse che erano straordinariamente sicuri di se stessi, molto più delle altre persone. E questa sicurezza in se stessi ha sicuramente contribuito al loro successo perché prima di tutto bisogna credere nelle proprie capacità e potenzialità.
Studiare gli avversari
Kobe credeva fosse di fondamentale importanza studiare il gioco degli avversari perché i “nemici” possono insegnarci molto se siamo disposti a imparare da loro, rubando i segreti del mestiere “e migliorare, migliorare ancora e ancora.”
Non imitarlo ma diventare il Kobe Bryant di se stessi
Scriveva così nel suo libro, “il punto non è essere Kobe Bryant, ma diventare il Kobe Bryant di se stessi“. Come a dire che il segreto del successo non sta nel trasformarsi in qualcuno che ammiriamo, ma adottare la sua mentalità nell’affrontare il proprio personalissimo percorso.
Non perdere di vista il sogno iniziale
Kobe ripeteva che è molto importante non dimenticarsi del sogno iniziale, quello che ci ha ispirato a intraprendere una certa strada. A volte, soprattutto se il percorso è costellato di ostacoli e difficoltà, si cambia rotta senza nemmeno accorgersene ma è un errore.
Trasformare le paura in forza
Era così sicuro di se stesso che nessuno avrebbe mai sospettato ci fosse della paura in lui, ma Kobe lo ammetteva tranquillamente dicendo che, semmai, la differenza la fa chi trasforma le paure in forza.
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