4 centimetri in 8 giorni: questo lo spostamento del fianco sud-orientale dell’Etna verso il mare (a est). Con questi dati, raccolti a maggio 2017, un gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv sezione Catania) in collaborazione con organizzazioni tedesche, hanno ipotizzato un possibile “collasso” del vulcano nel mare. Molto preoccupante, anche se futuribile
4 centimetri in 8 giorni: questo lo spostamento del fianco sud-orientale dell’Etna verso il mare (a est). Con questi dati, raccolti a maggio 2017, un gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv sezione Catania) in collaborazione con organizzazioni tedesche, ha ipotizzato un possibile “collasso” del vulcano nel mare. Molto preoccupante, anche se futuribile.
Gli scienziati sanno da decenni che le pendici sud-orientali dell’Etna, famoso vulcano attivo sulla costa orientale della Sicilia, si stanno spostando verso il mare di circa 2 o 3 centimetri all’anno. Ma nel nuovo studio dell’Ingv si è osservato uno spostamento molto più grande di quanto mai registrato: 4 centimetri in un periodo di 8 giorni a maggio 2017.
Anche se per la maggior parte dei 15 mesi oggetto delle osservazioni non si è verificato nulla, questo improvviso e incredibile shift del fianco sud-orientale suggerisce che il vulcano sta crollando sotto il suo stesso peso. E non è solo un rischio per lo splendido paesaggio della zona.
“Questa è una brutta notizia per la vita umana – spiega infatti Morelia Urlaub, coautrice dello studio – Sappiamo che altri vulcani presenti nei registri geologici sono crollati in modo catastrofico e hanno provocato frane davvero grandi, molto veloci, e che se queste frane penetrano nel mare, possono causare uno tsunami”.
“La possibilità che ciò accada all’Etna non può ancora essere quantificata – ha però precisato la ricercatrice – Le osservazioni scientifiche sulla montagna risalgono a pochi decenni fa e l’intera storia dell’Etna si estende per 500.000 anni”.
Cosa fare dunque? Per ora possiamo e dobbiamo solo monitorare con più frequenza e attenzione, in modo da rilevare se ci sono cambiamenti nel modo in cui la pendenza si muove e stimare il rischio di collasso del vulcano.
Foto: Morelia Urlaub/Felix Gross via Science Alert
Niente panico per ora, dunque, ma occhi aperti.
A riportaci con i piedi a terra, smorzando i possibili allarmismi, è il direttore dell’INGV- Osservatorio Etneo di Catania, Eugenio Privitera, che ci spiega:
“L’INGV non ha lanciato nessun allerta e non stiamo parlando di nulla di nuovo. Che il fianco orientale dell’Etna stia scivolando verso lo Ionio è noto dagli anni ’80 e nel corso di questi anni si sono raccolte prove sempre più stringenti che rendono, ormai, questo carattere del nostro vulcano una delle sue peculiarità fondamentali. Nel frattempo si è anche acceso un dibattito scientifico sulla causa di questo scivolamento, ovvero: scivola sotto la spinta del magma? Oppure va considerata come una mega-frana spinta dalla gravità? infine, può essere una combinazione dei due fattori? L’articolo di cui stiamo parlando non fa altro che aggiungere un contributo a questo dibattito scientifico. È un contributo importante perché da delle informazioni sulla parte sommersa del vulcano, non disponibili sino ad ora. Come dicono gli stessi autori, queste misure devono essere ripetute, sia per validarle, sia per capire meglio il loro significato.
Dal punto di vista della pericolosità dell’Etna, un cosiddetto “collasso di versante” non si può escludere a priori, tant’è che il Dipartimento Nazionale della Protezione Civile lo considera tra gli scenari possibili. Probabilmente il peggiore. Il fatto che possa accade, non significa che accadrà e se accadrà non sappiamo quando. Quando si afferma che la probabilità non è quantificabile e perché questa è così bassa che, appunto, non si può quantificare, ma esiste. Ovviamente, un collasso di versante che provoca un ingresso in mare di una enorme massa rocciosa genera inevitabilmente uno Tsunami. Questi sono i fatti, nulla è cambiato rispetto ad ieri”.
Il lavoro è stato pubblicato su Science Advances.
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Roberta De Carolis