La felicità può essere edonistica, eudamonica; sempre richiede un nostro approccio consapevole di co-costruzione. E, per realizzarsi, non può essere il vero obiettivo della nostra vita.
“Dimmi, babbo, che cos’è la felicità”, cantava Antoine nel 1967, con un testo per nulla banale. Oggi la Psicologia Positiva riconosce due filoni di “felicità”: quella edonistica, legata alle emozioni positive e al piacere che deriva dal soddisfacimento dei propri desideri, e un’altra, “eudemonica” che allarga la definizione semantica di felicità ad un sentirsi parte di qualcosa di più grande di noi, ad un percorso di sviluppo individuale – per ritrovare la propria autentica natura umana – che si integra e realizza nello spazio sociale.
Quali sono gli aspetti che determinano la nostra felicità?
Le emozioni positive servono, non sono affatto da buttar via: a parte la piacevolezza, ci aiutano a costruire nuove risorse, rafforzano le nostre strategie adattive, fanno da cuscinetto di sostegno nei momenti di difficoltà. Ma non sono tutto. Siamo felici quando abbiamo buone relazioni interpersonali, quando ci sentiamo competenti e con un buon livello di autonomia, quando ci muoviamo con sicurezza nel nostro ambiente; quando siamo “coinvolti”, come fossimo quasi una cosa sola, in quello che facciamo. Siamo felici nel qui ed ora, quando riusciamo ad essere totalmente nel presente.
C’è un altro livello di felicità, forse meno evidente: ed è quella che sentiamo quando possiamo dare un significato, uno scopo alla nostra vita; questo significa, certo, avere degli obiettivi da raggiungere ma – soprattutto – agire, mettersi in qualche modo a servizio di qualcosa che si considera più grande di sé: uno o più valori che vanno oltre il soddisfacimento personale delle piccole cose quotidiane, del piacere e delle emozioni, e permeano la vita, diventano uno stimolo continuo, la vera e profonda motivazione intrinseca che sostiene, orienta. Dà senso. Anche quando si attraversano momenti difficili, anche quando non è per nulla piacevole.
Non ci sono “formule magiche”. Dario Canil, psicologo e insegnante di sciamanesimo, nel suo libro “Avrah ka dabra, creo la mia felicità” (linkaffiliazione) (Edizioni L’Età dell’Acquario), sottolinea l’importanza di prendersi la responsabilità della propria esistenza, lavorando su di sé, guardando ad ogni evento – bello o brutto – della propria vita come ad un’opportunità. Senza mai dare nulla per scontato, nemmeno le piccole cose (“quando sei al supermercato per comprare la verdura, considera il valore della comodità di sceglierla e posarla sul carrello, senza doverti occupare per mesi della sua coltivazione. Lascia che un sentito “grazie verdura!” sgorghi in maniera sentita dal tuo cuore. Quando la mangi considera che è la sua vita che permette a te di vivere. Che dono!”), in una visione che non è né romantica né ingenua, semplicemente consapevole. Riconoscendo e onorando anche le verità implicite: “La felicità è guardare al bicchiere e vedere la verità di quel bicchiere: che una parte è piena, un’altra è vuota, capire cosa si può fare delle due situazioni e accettarlo – ha dichiarato in un’intervista Mo Gawdat, di Google -. La felicità non dipende da quello che il mondo ti dà ma dalle tue aspettative, da quello che tu pensi che il mondo ti dà o ti deve dare“.
Il punto centrale della nostra felicità, quindi, non è la felicità. Siamo noi. Come il gattone della storia narrata – nel video qui sotto – da Claudio Tomaello, cantastorie dell’anima, siamo davvero felici solo quando riusciamo a fare la nostra, autentica, strada.