Come è tradizione da un po' di tempo a questa parte, anche quello dell'estate appena passata è stato un viaggio a piedi. Dopo un po' di incertezza su dove andare e qualche proposta per un motivo o per un altro accantonata, abbiamo pensato al Parco Nazionale dei Monti Sibillini.
Come è tradizione da un po’ di tempo a questa parte, anche quello dell’estate appena passata è stato un viaggio a piedi. Dopo un po’ di incertezza su dove andare e qualche proposta per un motivo o per un altro accantonata, abbiamo pensato al Parco Nazionale dei Monti Sibillini.
Abbiamo cercato informazioni e cartine del Grande Anello dei Sibillini, un itinerario escursionistico di media montagna lungo circa 120 chilometri, e deciso di seguirne a grandi linee il percorso, facendo però numerose deviazioni su altri sentieri del Parco.
E così, zaino in spalla completo di tenda, sacco a pelo, un fornellino leggero e poco ingombrante costruito il giorno prima di partire e buon cibo in quantità, siamo partiti carichi di curiosità e di aspettative. Se per il mio compagno di viaggio si trattava della voglia di conoscere nuovi luoghi, per me era insieme un ritorno a casa e una scoperta: pur avendo vissuto per quasi trent’anni tra Marche e Umbria, prima di trasferirmi al nord, non conoscevo affatto il Parco, se non qualche paesino visitato frettolosamente.
Sono stati dieci giorni di cammino in cui non abbiamo mai smesso di stupirci per la bellezza del posto in cui ci trovavamo, per il fatto che una regione semisconosciuta e poco battuta dalle rotte turistiche possa nascondere luoghi così affascinanti e incontaminati.
Il primo giorno è iniziato con una salita abbastanza faticosa, anche perché inaspettata, ma appena usciti dal bosco siamo stati ricompensati da una vista stupenda: le colline e la campagna marchigiane, paesini e città arroccate e, in fondo, l’Adriatico e l’inconfondibile profilo del Monte Conero. Ci siamo fermati a chiedere acqua ad una casetta isolata, i cui proprietari ci hanno intrattenuto per un po’ raccontandoci delle loro escursioni e consigliandoci luoghi da non perdere. Nel mostrarci il panorama, ci hanno detto che si tratta di luoghi che «non hanno nulla da invidiare al Trentino». Ci siamo trovati perfettamente d’accordo, ma nei giorni successivi avremmo constatato con un po’ di amarezza che il paragone con il Trentino, o più in generale con le Alpi, veniva utilizzato anche in senso negativo: «qui non siamo sulle Alpi» è quello che ci siamo sentiti ripetere più e più volte quando chiedevamo indicazioni su un sentiero non ben segnalato o su un rifugio esistente solo sulla carta, in una sorta di senso di inferiorità nei confronti dell’organizzazione e della capacità di sfruttamento turistico dell’arco alpino. Eppure a noi questi piccoli imprevisti non disturbavano affatto: sbagliare sentiero non era, per noi, perdere tempo, ma scoprire qualcosa di nuovo, che altrimenti sarebbe rimasto nascosto ai nostri occhi. Così come non ci hanno disturbato più di tanto i momenti di pioggia. Certo, camminare sotto l’acqua non è piacevole, ed è anche più faticoso, però i colori saturi dei boschi bagnati sono incredibili e il ticchettio delle gocce d’acqua sulle foglie è un piacevole compagno di viaggio.
Abbiamo attraversato paesaggi molto diversi tra loro, siamo passati da boschi rigogliosi di pini, abeti, querce, faggi, lecci e aceri campestri agli ambienti aridi dell’alta montagna, dove crescono solo arbusti e fiori spinosi.
La prima deviazione dal Grande Anello dei Sibillini ci ha regalato i giorni più impegnativi della vacanza, ma anche i luoghi e le esperienze più belle: ci siamo inoltrati nelle suggestive Gole dell’Infernaccio, scavate dal fiume Tenna, che abbiamo risalito fino alla sorgente.
Mentre camminavamo alla ricerca di un posto dove piantare la tenda, un sibilo ha attirato la nostra attenzione. Era una piccola vipera nascosta sotto un mucchio di pietre. Ci siamo allontanati un po’, e poi ci siamo detti che lei, in fondo, era a casa sua e che gli ospiti delle montagne eravamo noi. La stessa sensazione l’abbiamo avuta il giorno successivo, quando, salendo verso il Monte Sibilla, abbiamo visto un camoscio correre e saltare da una roccia all’altra, mentre noi arrancavamo sotto il peso degli zaini.
La salita più faticosa della vacanza, un dislivello di circa mille metri in un paio di chilometri, inizialmente nel bosco, poi su un sentiero pietroso e sotto il sole cocente, è stata ripagata non appena arrivati in vetta, dove ci attendeva una vista meravigliosa: davanti a noi si stagliavano alcune tra le cime più alte dell’Appennino, a sormontare un paesaggio che digradava dolcemente fino ad arrivare al mare. Ci siamo incamminati sul sentiero di crinale, qualche ora in marcia con il sole e il vento forte a farci compagnia. E un‘infinità di piccole stelle alpine che costellavano il sentiero. Per me è stata un’autentica e piacevole sorpresa: nella mia mente è sempre stato un fiore legato alle Alpi, non mi aspettavo affatto di vederne anche sugli Appennini, e per di più a poche decine di chilometri dai luoghi dove sono cresciuta.
Ci siamo fermati a dormire qualche chilometro prima di Castelluccio di Norcia, sul prato davanti ad un rifugio. Avremmo scoperto presto che non si trattava solo di un rifugio CAI a disposizione degli escursionisti, ma anche della dimora estiva di un pastore rumeno che, vedendoci armeggiare con pentole e fornellino, ci ha aperto la sua cucina e messo a disposizione un tavolo su cui appoggiarci e una stanza calda. Poca roba, ma per noi, stanchi e infreddoliti, è stato un vero regalo. L’italiano del pastore era molto stentato, aiutato da un quadernino con la traduzione di alcuni vocaboli essenziali (buongiorno, andiamo, dormire…), ma siamo comunque riusciti a comunicare un po’: gesti e sguardi a volte servono più di tante parole.
Il viaggio lento è anche questo, è la possibilità di incontri casuali e inaspettati, di entrare in contatto con chi i luoghi li vive quotidianamente facendo una vita dura come è quella dei pastori.
Il giorno successivo, vedendoci far colazione in mezzo ad un sentiero non lontano da Castelluccio, alcuni anziani escursionisti ci hanno detto: «Bravi! Questo è un paradiso, bisogna goderselo!». Abbiamo sorriso: è proprio vero, a volte basta allontanarsi di pochi chilometri, fermarsi a prendere il proprio tempo e a guardarsi intorno, e recuperare le forze diventa molto più semplice.
L’ultima notte ci ha regalato un bivacco senza tenda sulle rive del lago di Fiastra, su cui si rifletteva una luna piena e luminosissima, l’ultimo saluto dell’Appennino prima di lasciarlo per tornare in pianura.
Martina Buldorini
Questo racconto fa parte del concorso Turista per scelta (green) edizione 2013