L'anno scorso io e il mio più caro amico, Davide Laganà, abbiamo compiuto in bici il giro della Sicilia (l'intero periplo). Siamo partiti da Capo d'Orlando (ME) con un budget di 200 euro, che comprendeva anche l'attrezzatura del viaggio, il tutto spinto dalla semplice voglia di compiere quest'avventura, e questo è il nostro racconto.
L’anno scorso io e il mio più caro amico, Davide Laganà, abbiamo compiuto in bici il giro della Sicilia (l’intero periplo). Siamo partiti da Capo d’Orlando (ME) con un budget di 200 euro, che comprendeva anche l’attrezzatura del viaggio, il tutto spinto dalla semplice voglia di compiere quest’avventura, e questo è il nostro racconto.
Giuseppe: Ho i polpacci in tensione. Mi fanno male. Il sole è caldo. Caldissimo. Qui il mezzogiorno di maggio è come il primo pomeriggio di ferragosto: infuocato. L’asfalto assorbe i raggi solari e li sputa contro le mie ruote. Li sento risalire, entrano nella mia maglietta. Tengo la testa bassa sul manubrio. Pedalo automaticamente, ma a fatica. Anche l’abitudine si stanca in salita, e questa salita sembra non finire più. Ma quante salite ci sono in Sicilia? Per un istante mi sento come pentito. È un’immagine istantanea: vedo il divano di casa mia, una limonata ghiacciata, lo stereo acceso; il lusso dell’ozio. È un secondo di ripensamenti. Ma è uno soltanto e lo dimentico subito, lo elimino subito. Mi basta poco per farlo. Mi basta superare una curva e perdermi nella meraviglia: alzo la testa e le mie pupille si restringono, inondate dalla luce.
Adesso davanti al mio naso c’è una macchia blu infinita che respira piatta, lenta, con un ritmo fuori dal tempo: il mare calmo, che brilla sotto la luce, che è di mille colori ed è sempre blu, ed è sempre bello, ed è sempre lo stesso mare che sta viaggiando con me da quando ho lasciato Capo d’Orlando; è lo stesso mare che sta tracciando con me il perimetro della mia isola. Lui cammina sulle onde, fra la sabbia, fra gli scogli delle coste. Io cammino sulla mia bicicletta, fra il caldo, il vento, la pioggia, e l’odore del mare, lo stesso mare. Ora fisso Davide, a qualche metro più avanti, e improvvisamente mi sembra uguale a me, anche lui con la sua bici, anche lui perso nello stesso attimo di bellezza.
Davide: Mentre ingoio salsedine a pieni polmoni, mi concedo il piacere di osservare. La bicicletta è il mezzo giusto per guardare, per guardare il tuo viaggio che si costruisce sotto le tue ruote, che si crea nello stesso momento in cui lo stai vivendo. E mentre pedalo e bevo nuovo ossigeno dal mare, mi volto indietro ad osservare Giuseppe. Se la felicità potesse avere un volto, e soprattutto una barba e un sorriso da trentadue denti, penso che la felicità si chiamerebbe Giuseppe: lo vedo libero, libero di stupirsi, libero di sorridere e di smarrirsi in quello che ha davanti; lo vedo così e penso sia quella la faccia della felicità. Perché quando decidi di partire con la tua bici, e con quel poco che ti può servire legato dietro al sellino, capisci che basta davvero poco per essere felici, che un tramonto può essere davvero come una poesia, che i gabbiani sono bellissimi e le stelle pure, che l’alba è davvero l’eterno inizio di qualcosa di nuovo, che rifiutarsi di affrontare il vento significa indietreggiare e non avanzare, che non pedalare sotto la pioggia significa prendere freddo in attesa di una schiarita, che “accontentarsi” dello stretto indispensabile è bello, quando questo stretto indispensabile è formato da 24 ore di illimitata meraviglia.
Giuseppe: mentre continuo a sorridere controvento, ripenso alla casualità con cui tutto è iniziato. Nessun programma, nessun preavviso: una telefonata di Davide e la sua proposta di partire e di tracciare il perimetro della Sicilia in sella alle nostre bici. Perché? Per festeggiare la sua laurea. Io ho accettato subito. Ho lasciato Milano e sono tornato in Sicilia. Pochi giorni per preparare tutto, per comprare quel poco che adesso ci portiamo dietro; pochi giorni e tutti in preda alla più totale felicità. Sì, siamo partiti felicissimi, senza nemmeno avere un’attrezzatura da cicloturismo, senza sapere cosa ne sarebbe stato di noi, ma felicissimi, con quella felicità che ti prende in quell’attimo immediatamente prima di una nuova scoperta. E noi stavamo per scoprire la nostra isola, che avevamo visto e vissuto mille volte, ma non così, non veramente; e me ne accorgo solo ora. Sorrido di nuovo ripensando alla pura ingenuità con cui tutto è iniziato, e scopro di avere lo stesso sorriso che mi brillava in faccia quando abbiamo lasciato Capo d’Orlando. Da lì siamo arrivati a Tusa Marina, e poi da Tusa a Scopello. Rido mentre penso al nostro arrivo a Palermo: ingresso epico nella città con una pioggia esagerata. Tettoie, pensiline, ombrelli: immagini costanti nella mia mente in quei momenti di acqua fredda; immagini costanti, desideri vivi, sogni infranti. Nessuna tettoia, nessun ombrello per noi in quella traversata. Pedalare diventava difficile, il carico si faceva più pesante, zuppo d’acqua com’era. Però andavamo avanti; dovevamo andare avanti e volevamo farlo: il viaggio era appena iniziato.
Passata la pioggia, Palermo ci ha regalato Helmut. Quando un amico si unisce al tuo percorso è sempre un sorriso in più. Anche lui con la sua bici, ha pedalato con noi da Palermo, la sua città, fino a Scopello. Ci ha tempestati di foto, ha catturato il tempo e immortalato gli attimi. Non dimenticherò mai questo viaggio, e lo dirò tutte le volte che guarderò una sua fotografia.
Davide: di giorno mi sembra di vivere solo con quello che sta al nord del mio ombelico. Le gambe si confondono e si fondono con le ruote e quasi non le controllo più. Eppure non posso dirmi stanco, non più, non ora che sono in viaggio già da molti giorni. Sebbene ci siano momenti in cui mi sento sfinito, subito dopo mi sento rinascere, pur continuando a pedalare. Basta solo un soffio di vento, una nuvola in più, un minuto d’ombra e poi un altro di sole; basta, insomma, che ci sia qualcosa che spezzi l’automaticità, l’abitudine, per farmi rinascere e dimenticare la fatica. Quando pedali così tanto ti accorgi che il tuo corpo può fare quello che di solito non fa; il tuo corpo riesce a spingersi oltre, a lavorare tre volte tanto quanto non riesce a fare nella quotidianità. E questo sforzo maggiore non ti pesa affatto, non più, non ora che il mio corpo è diventato la mia bicicletta. Mentre penso ai miei muscoli a pedali, guardo Giuseppe che adesso mi ha superato e si porta avanti, assorto anche lui nelle sue riflessioni.
Un viaggio come il nostro prevede anche questo: riflessione e momenti di estrema solitudine. Viaggiamo insieme, sì, ma a momenti di chiacchiere, di risate, di concertini improvvisati con le dita tamburellanti sul manubrio; a momenti di empatica condivisione se ne alternano altri di profonda solitudine. A volte ci osservo: le nostre ruote vanno verso la stessa meta, ma il nostro sguardo è fermo su qualcosa che è solo mio, o soltanto suo; a volte i nostri occhi seguono immagini diverse e mescolano pensieri che teniamo solo per noi stessi. E adesso? A cosa starà pensando lui adesso?
Giuseppe: Helmut avrebbe dovuto esserci. San Vito lo Capo e la riserva del monte Cofano mi hanno quasi creato una paresi facciale: zigomi costantemente in su, sorrisi a milioni. Quando penso alla Sicilia in generale, penso a questo: un‘esplosione di emozioni, una tela di bellezza con provincia Trapani. Neanche Marsala è stata da meno: lì finalmente un giorno di riposo. Prima la notte in barca, e poi la giornata nell’agriturismo di Martina, posto fantastico. Ma quando penso a Marsala, penso soprattutto a un piccolo episodio, una piccola scoperta che porto ancora dentro di me: credo avesse sei anni circa, cavalcava con energia la sua bici. Dopo un momento si avvicinò alla madre e le sussurrò all’orecchio di non aver mai visto degli occhi belli come i miei. In quell’istante, allora, mi ricordai degli sguardi degli altri ciclisti incrociati lungo il viaggio. La loro bellezza mi aveva sorpreso. La chiarezza trasparente della loro retina permetteva di leggere fino nel profondo della loro anima. Allora compresi di avere negli occhi la stessa beatitudine che avevo scoperto nei loro.
Davide: continuo ad osservare Giuseppe. Ha la sua GoPro in mano, come sempre. È fantastico sapere in anticipo che, una volta a casa, potrò rivedere tutto, tutte le strade che hanno toccato le mie ruote, tutte le luci, i colori, le onde. Immagino già come sarà quando rivedrò per la prima volta le immagini della Scala dei Turchi: le mie sinapsi si attiveranno e manderanno potenziali a un ritmo che sarà scandito da un’ondata di meraviglia; una sensazione di piacere e di pace, improvvisa regressione a una dimensione mistica, o meglio, naturale. Ed è questo quello che è successo al nostro risveglio alla Scala dei Turchi, il giorno dopo aver lasciato Marsala. Aprire gli occhi lì, su quella pietra bianca che si immerge nel mare, con una discesa che cade morbida, che cade piano, come a voler rispettare in silenzio quell’acqua che l’accoglie; aprire gli occhi lì è stato come aprirli per la prima volta. Una rinascita, un venire al mondo per la seconda volta, un venire al mondo e con il mondo, in simbiosi con l’aria, l’acqua e la pietra calcarea. Non è stato facile lasciare la Scala, ma un gelato carruba, fichi e cannella ci ha aiutato parecchio, davvero! E poi di nuovo in viaggio verso Ortigia, sempre più vicini al ritorno.
Giuseppe: ma quante salite ci sono in Sicilia? E come tira forte il vento oggi! La potenza dell’aria blocca il mio movimento. Mi sembra di restare fermo. Pedalo e mi sposto in avanti solo di qualche centimetro. Il vento continua a soffiare. Fischia contro di noi in quest’ultima tappa che ci sta portando da Ortigia a Capo d’orlando, il punto di partenza. Ho i polpacci in tensione e mi fanno male ancora una volta, adesso che il viaggio sta per finire, adesso che i miei muscoli dovrebbero essere assuefatti al lavoro. E invece mi fanno male, perché questo vento è di cemento: è un muro invisibile che sto spostando a fatica, lentamente. Ho la testa bassa sul manubrio, la schiena quasi distesa. Sto cercando di capire se il mio corpo sia in grado di assumere una forma aerodinamica, se sia in grado di diventare più leggero, se sia capace di intrufolarsi nella crepa sottile che la mia ruota sta scalfendo in questa parete di vento. Mi volto un attimo indietro: il carico che ho legato al sellino non mi aiuta affatto. Cerco comprensione negli occhi di Davide: anche lui preme i pedali con la delicatezza di Robocop. Il vento è forte, è attestato. Ma anche la stanchezza adesso sembra pioverci improvvisamente addosso.
Stiamo pedalando da quattordici giorni e il tempo, gli sforzi e le tensioni si manifestano ora in tutta la loro potenza, proprio davanti alle ultime curve prima della fine. Alla nostra destra c’è già il mare di Capo d’Orlando, ma non siamo ancora arrivati, non prima di aver oltrepassato gli ultimi tornanti. Mentre continuo a fare forza sui pedali, lascio vagare libero lo sguardo, l’unico che in questo momento possa muoversi con leggerezza. Freno. Freno e mi fermo del tutto. Il cielo è puntinato di gabbiani. Gabbiani, già. E cosa sarà mai vedere dei gabbiani per uno che come me è cresciuto in un posto di mare? Cosa sarà mai? E invece a me sembra di non aver mai visto un solo gabbiano in tutta la mia vita. Mi perdo ad osservarli mentre tagliano il cielo e toccano la superficie del mare. Seguo le loro linee trasparenti: si intrecciano, si incontrano, si perdono e si ritrovano. Nascono nuove traiettorie, volano veloci e planano leggeri. Non vincono sul vento, ma il vento non vince su loro: è una comunione eterna quella che lega i loro voli all’aria, e adesso si rivela ai miei occhi, per la prima volta. Non riesco a smettere di guardarli. Nella fatica degli ultimi metri, questo improvviso volo di gabbiani ha messo pausa al brano “tempo”, in riproduzione nelle mie orecchie. Osservare i gabbiani, fermo sul ciglio della strada, è qualcosa che mi ricorda quel momento di pausa quando sono al lavoro, quella campanella della ricreazione in terza elementare, quell’attimo esatto in cui la sera, stanco morto, appoggio la testa sul cuscino. Osservare i gabbiani, e osservarli davvero come non ho mai fatto prima, è un momento di pace, di respiro, seguito subito da un’onda anomala di immagini e di pensieri che si abbattono sullo scoglio della memoria: quei quattordici giorni di viaggio si mostrano tutti, adesso, nella mia mente.
Ad ogni volo che seguo corrisponde un ricordo, ogni traiettoria è una tappa del viaggio. Penso al monte Cofano.
D: penso alla brioche con il gelato.
G: alla pioggia.
D: alla Scala dei Turchi.
G: le notti in tenda.
D: il sole a mezzogiorno.
G: la sabbia.
D: l’alba.
G: la granita.
D: le stelle.
G: il tramonto.
D: i ciclisti.
G: lo stupore negli occhi.
D: l’aria dentro la maglietta.
G: l’odore del mare.
D: la partenza.
G: la salita.
D: il vento.
G: i gabbiani.
Siamo fermi al bordo della strada, a un attimo dal punto di arrivo. Ci guardiamo, e senza dire nulla riprendiamo a pedalare. Sorridiamo. Il viaggio è quasi finito e la nostra felicità è immensa. C’è, però, in quest’immensità un labile spiraglio di malinconia: possiamo sterzare e tornare indietro? O possiamo andare avanti, di nuovo, fino a Palermo? La nostalgia ci ha già presi per mano. Non torneranno questi momenti, non con gli stessi colori. Ma torneranno i ricordi, forse sbiaditi, sì, ma con la stessa meraviglia che questo viaggio ha lasciato nei nostri occhi.
“Benvenuti a Capo d’Orlando”, il cartello parla chiaro.
Benvenuti al Sicily coast to coast.
Da questa esperienza è nato quasi per gioco “SICILY COAST TO COAST”, un progetto che racconta in un totale di 6 video il nostro viaggio in tutti i suoi aspetti:
Giuseppe La Rosa
Il racconto fa parte del concorso Turista per scelta (seconda edizione)
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