Decrescita è la parola che da qualche anno rimbalza dalle pareti dei circoli di lettori alle cascine, dalle scrivanie degli economisti alle tavole dei professionisti illuminati. Alle orecchie di qualsiasi fautore delle “magnifiche sorti e progressive”, la parola decrescita assume i connotati di un divieto di transito appostato lungo un’ autostrada senza limite di velocità.
Frustrazione, impotenza e desiderio di ribellione contro una cupola di potere che tiene in scacco il futuro della maggioranza: nei modi dell’indignazione che tiene banco in queste settimane si esprime una consapevolezza ormai diventata senso comune. È sempre più doveroso, quindi, non liquidare queste proteste come isolato fenomeno estremista, ma riflettere sulla natura delle richieste e su quale sia la visione alternativa da condividere.
Decrescita è la parola che da qualche anno rimbalza dalle pareti dei circoli di lettori alle cascine, dalle scrivanie degli economisti alle tavole dei professionisti illuminati. Alle orecchie di qualsiasi fautore delle “magnifiche sorti e progressive”, la parola decrescita assume i connotati di un divieto di transito appostato lungo un’ autostrada senza limite di velocità.
L’originale fautore di questo termine (usato per la prima volta nel 2004 all’interno di un pamphlet) è Serge Latouche, economista e antropologo, nonché interprete di lunga data del pensiero ecologista contemporaneo. Egli definisce la decrescita come “la necessità dell’abbandono dell’obbiettivo della crescita illimitata”. L’ipotesi di una società capace di immaginare se stessa libera dal giogo del produttivismo, dell’accumulo di beni e risorse e della loro “mercificazione”, si insinua come una sfida epocale. Non di una soluzione temporanea, si sta parlando. Bensì di un radicale cambio di rotta. Poiché “la decrescita è concepibile soltanto all’interno di una società della decrescita, ovverosia nel quadro di un sistema basato su una logica diversa” scrive Latouche. Nessun periodo della storia del mondo occidentale è apparso, dunque, più fragile di questo, dal punto di vista delle ideologie dominanti. E quindi, più ricettivo di fronte al cambiamento.
Latouche non è che l’ultimo di una pletora di studiosi che dagli anni Settanta in poi vanno predicando l’imminenza di un collasso del sistema ecologico-umano. Risale alla metà del secolo scorso, l’inizio di una riflessione consapevole sulle conseguenze di una crescita esponenziale delle economie occidentali, e della popolazione, sull’ecosistema. Sono le leggi matematiche dell’entropia a dirlo: non c’è crescita senza limiti in un sistema di per sé limitato come il pianeta Terra. Da qui la necessità di sostituire la scienza economica tradizionale con una bioeconomia, ovvero di ripensare l’economia al’interno della biosfera. Un processo che non ha nulla di meccanico, che è impossibile da avviare spegnendo e riaccendendo un pulsante. Che, al contrario, necessita la convergenza di tutta la società, ai suoi vari livelli, attorno a un programma di riorganizzazione dei modi di vivere.
In questo senso, la decrescita evoca la possibilità di un vivere conviviale “fondato su società autonome e sobrie sorrette da un’economia della condivisione, della sufficienza e della presa in cura dei sistemi viventi e dei beni comuni.” A fornire questa descrizione è il manifesto con cui si preannuncia la 3° conferenza su Decrescita, Sostenibilità ecologica e equità sociale che si svolgerà a Venezia tra il 19 e il 23 settembre del 2012.
L’appuntamento, già in corso di preparazione, si prefigge l’obiettivo di immaginare la società della decrescita e di declinare il più concretamente possibile le politiche necessarie alla sua realizzazione. Non secondaria è la volontà di far arrivare le proposte ai grandi poteri, oggi in crisi di identità e di strumenti risolutivi.
Già, Serge Latouche nel suo “Breve trattato della decrescita serena” (Bollati Boringhieri, 2008) () , ormai giunto alla quinta edizione, aveva suggerito i pilastri di un percorso di transizione fondato sulle 8 R. Rivalutare, cioè istituire valori nuovi. Riconcettualizzare, cioè invertire le attuali idee di ricchezza e povertà. Ristrutturare, cioè adattare l’apparato produttivo ai nuovi valori. Rilocalizzare, cioè tornare a un’ economia che produce e consuma sul posto. In aggiunta a: Ridistribuire (la ricchezza), riciclare (i rifiuti) e ridurre (gli sprechi).
La componente di buon senso, oltre a quella di radicalismo ecologico, che muove il pensiero di Latouche è palese. È la società contemporanea stessa a confermarlo, dimostrando di assimilare in modo naturale certe pratiche di transizione come le campagne sulla riduzione degli sprechi e sul riciclo. A fronte di un corretto uso delle materie prime e di una giusta valorizzazione del superfluo si avverte un impoverimento del nostro standard di vita? Certo che no, è facile rispondere. Al contrario, queste nuove pratiche hanno permesso la riscoperta di sistemi di convivialità basati sullo scambio e sul dono che la competizione al possesso avevano accantonato nei cassetti.
La decostruzione di un immaginario e la “formazione di un nuovo immaginario condiviso è la premessa necessaria affinché individui e organizzazioni sociali possano intraprendere un progetto o un’azione comune” dice Massimo Bonaiuti, leader dell’Associazione per la Decrescita. La società post-moderna ha generato una frammentazione di immaginari, il cui collante è rappresentato dalla mitologia effimera della pubblicità e del consumo. Sono i Lyotard e i Bauman a dirlo. In fondo, sono anche gli studenti che scendono in piazza in questi mesi a dimostrare che quel modello di “società liquida” non riesce più a garantire un benessere reale.
Dobbiamo pensare che ciò che le nuove generazioni possono desiderare è volere meno di ciò che i loro genitori hanno ottenuto? Non è neppure questo il nocciolo della decrescita. Piuttosto esso sta nel “desiderare altro”.
Maurizio Pallante, leader del Movimento per la Decrescita Felice ipotizza una direzione: valorizzare l’esistente a discapito del nuovo, le competenze qualificate rispetto a quelle mercificate.
“Anziché nella costruzione di grandi opere occorre investire nella ristrutturazione energetica degli edifici esistenti, nella riduzione delle perdite nelle reti idriche e nel recupero delle acque piovane, nella manutenzione degli edifici pubblici, nel ripristino della bellezza dei paesaggi deturpati negli scorsi decenni da un’edilizia volgare e invadente, nel potenziamento dei trasporti pubblici locali, nella rinaturalizzazione dei quartieri urbani dove insistono edifici industriali o palazzi abbandonati (come si sta facendo a Detroit), nello sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo, nel recupero e riciclaggio dei materiali contenuti negli oggetti dismessi, nell’agricoltura tradizionale di prossimità, nel commercio locale, nell’accorciamento delle filiere tra i produttori e gli acquirenti.”
Chiaro come la decrescita alimenti prospettive che da più parti hanno cominciato a prendere piede. Un dato empirico positivo viene dalla moltiplicazione delle reti sul territorio generate dal fenomeno della decrescita o che alla decrescita si ispirano.
“Per contrastare la periferizzazione urbana e politica prodotta dalla società della crescita, la soluzione potrebbe essere quella di riprendere l’”utopia” dell’”eco municipalizzazione” indica Latouche. Il locale è la prospettiva territoriale, la vicinanza, la qualifica tramite la quale ritessere la tela delle relazioni sociali e politiche ma anche economiche e finanziarie. È qui che tutte i variegati movimenti della decrescita nate in questi anni trovano un minimo comune denominare.
Tuttavia, quale locale? Il comune, la provincia, la regione, la metropoli? In che rapporto di interdipendenza gli uni con le altre? Come trasferire questa ipotesi di de-sviluppo ai Paesi in cerca del benessere sognato?
Sono numerosi gli interrogativi a cui la Decrescita deve dare risposta.
L’appuntamento del 2012 porterà sul tavolo della discussione globale alcuni importanti temi allo scopo di individuare modelli equi e sostenibili. Si parlerà di: beni comuni (proprietà, usufrutto, gestione, tutela, condivisione e fruizione dei beni e delle risorse), lavoro (produzione, lavoro, cura, sicurezza sociale e previdenza), democrazia (partecipazione, decentramento, responsabilità ecologica e intergenerazionale).
Pamela Pelatelli