Attualmente, le tipologie di spazzatura gestite da Terracycle sono 45. La premessa è semplice: ci si iscrive al sito dell’azienda, si identifica il tipo di rifiuto e lo si raccoglie in scatoloni per poi spedirlo a carico di Terracycle. Per ogni pezzo, si ricevono 2 centesimi (o l’equivalente moneta corrente). Ovviamente l’unione fa la forza. Un po’ come accadeva con le collezioni a punti degli anni ’80 per i quali si andava a chiedere alla nonna o alla vicina di casa.
Voci di corridoio, soffiate e indiscrezioni. Capire se Terracycle, l’azienda americana che solo nel 2010 ha fatturato ben 40 milioni di dollari recuperando spazzatura, arriverà in Italia, sembra essere un gioco da spie russe in stile Gorky Park. C’è chi dice alla fine dell’anno, chi a inizio 2012. L’attesa, nel frattempo, continua a essere alimentata dall’eco di lodi e di successi che arrivano dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi Europei entrati nel circuito dell’azienda.
E pensare che tutto nacque, nove anni fa, da un mucchio di vermicelli e da una pianta di marijuana. Tom Szaky, allora matricola della prestigiosa Princeton University, si incuriosì per il fatto che le uniche piantine sane della piccola coltivazione condotta da alcuni suoi compagni di corso erano quelle alimentate da un fertilizzante a base di compost e lombrichi. Il passo verso il business plan di Terracycle apparve ovvio: raccogliere rifiuti in giro per il mondo e farli diventare oggetti utili e pratici.
Da quel momento in poi, il percorso è stato una continua accelerazione di eventi. Nel 2004 arrivò il magazzino in cui stipare la spazzatura raccolta, poi la prima produzione di fertilizzante e i primi contratti con le grandi aziende di distribuzione: Wal-Mart in testa. Essere sugli scaffali della regina dei supermercati fu un colpo grosso. L’obiettivo era un altro, però. Coinvolgere la gente a inviare singole tipologie di spazzatura per poter lavorare il materiale di scarto e ricavarne una risorsa di seconda generazione con cui produrre qualcos’ altro. La regola infatti è che i rifiuti devono essere separati: da un lato i sacchetti delle patatine, dall’altro gli involucri delle barrette. E così via. Da ogni scarto, un diverso prodotto di consumo .
Lamette per la barba, carta delle caramelle, tappi di sughero, imballaggi in tetra pak, penne. Attualmente, le tipologie di spazzatura gestite da Terracycle sono 45. La premessa è semplice: ci si iscrive al sito dell’azienda, si identifica il tipo di rifiuto e lo si raccoglie in scatoloni per poi spedirlo a carico di Terracycle. Per ogni pezzo, si ricevono 2 centesimi (o l’equivalente moneta corrente). Ovviamente l’unione fa la forza. Un po’ come accadeva con le collezioni a punti degli anni ’80 per i quali si andava a chiedere alla nonna o alla vicina di casa. In questo caso, coinvolgere i colleghi dell’ufficio o un’intera scuola per costituire una “brigata” (così si chiamano le comunità di Terracycle) è garanzia di una maggiore raccolta e quindi di un più oneroso premio che potrà essere devoluto a scopi sociali.
Il “cash for trash” ossia l’idea di dare denaro in cambio di rifiuti, gratifica il consumatore e arricchisce una comunità. È in previsione del successo di questo meccanismo di scambio che Tom Szaky, negli anni, ha convinto un’azienda dopo l’altra a finanziare il suo progetto. Come rivela lo stesso Szaky in una rubrica sul New York Times “la sfida del nostro modello di business si basa sulle aziende che sponsorizzano i nostri programmi di trasformazione dei rifiuti, incluso anche i costi di trasporto. Il risultato è che la nostra crescita è direttamente proporzionale all’attenzione che queste aziende rivolgono ai nostri programmi.”
Ecco che quindi l’involucro in alluminio da cui rigenerare un astuccio per la scuola non è uno qualunque ma quello delle patatine Doritos, così come la confezione di caramelle da cui nasce uno zainetto è quella gialla delle M&M’s. Le aziende hanno tutto l’interesse a prolungare la vita dei loro brand su altri prodotti e a promuovere il lato ambientalista della propria immagine, mentre i consumatori si liberano degli scarti di prodotti che verrebbero in ogni caso acquistati.
Questa logica vincente ha condotto Terracycle ad aprirsi, in poco tempo, a sempre più mercati. Nel 2011 è stata la volta di Francia, Germania, Belgio e Spagna. Sebbene l’Italia stia ottenendo buoni risultati sul fronte del riciclaggio, incerti sembrano essere i tempi di approdo: da tempo, si parla di un contratto in via di chiusura con una grossa azienda di caffè a cui sarebbe legato il business per il recupero di cialde e confezioni in alluminio.
Gli integralisti leggono nel meccanismo di business di Terracycle un saldo pari a zero in materia di consumi, i restanti vedono più probabilmente che lì dove ci sarebbe stata spazzatura, si sono create opportunità. Le dichiarazioni di Tom Szaky, 28 anni e un viso tondo e sbarbato, lasciano tuttavia trasparire intenzioni ben più alte. A suo dire, l’obiettivo di Terracycle è riuscire a trovare una seconda vita per tutte le tipologie di rifiuto (anche quelle più difficili da smaltire come pile e medicinali o quelle non prodotte da una grossa azienda), fiducioso nel fatto che non tutti coloro che spediscono i loro rispettivi scatoloni lo fanno unicamente per riceverne in cambio denaro. Ma semplicemente perché “Terracycle sa cosa farne”.
A guardare i numeri, bisogna credergli sulla fiducia. Dei tre miliardi di pezzi di spazzatura ricevuta, il 96% proviene da prodotti di grandi aziende e il 75% corrisponde a una qualche tipologia derivante dalla plastica. Tom Szaky è tuttavia uno di quelli da cui ci si può aspettare sempre qualcosa. La breve storia di Terracycle infatti è costellata di grandiose intuizioni ma anche di alcuni piccoli fallimenti. Come il tentativo di gestire l’intera catena di produzione, oltre alle fasi di raccolta e cessione della spazzatura alle aziende licenziatarie – formula attuale e più sicura – o quello di aprire una catena di negozi in franchising, che a oggi sembra non essere ancora una strada vantaggiosa.
Per il momento, Terracycle punta felicemente a un’espansione planetaria, al ritmo di una multinazionale. Ma del green business.
Pamela Pelatelli