Come uomini, trascorriamo circa 3 miliardi di ore a settimana giocando on line. Come specie umana, ci troviamo in una delle fasi più difficili del nostro percorso evolutivo. Per Jane Mc Gonigal, 34 anni e game designer di fama internazionale, basterebbe che tutti quanti giocassero 21 miliardi di ore a settimana e potremmo vedere risolti i problemi relativi alla fame, alla povertà, ai cambiamenti climatici, ai conflitti globali e all’obesità entro la fine del prossimo decennio.
Come uomini, trascorriamo circa 3 miliardi di ore a settimana giocando on line. Come specie umana, ci troviamo in una delle fasi più difficili del nostro percorso evolutivo. Per Jane Mc Gonigal, 34 anni e game designer di fama internazionale, basterebbe che tutti quanti giocassero 21 miliardi di ore a settimana e potremmo vedere risolti i problemi relativi alla fame, alla povertà, ai cambiamenti climatici, ai conflitti globali e all’obesità entro la fine del prossimo decennio.
Jane Mc Gonigal non è una pazza. Anzi. Ha tutta l’aria di essere una giovane determinata e convinta della verità delle proprie affermazioni. Ne è la conferma, l’uscita del suo primo libro La realtà in gioco (Apogeo, 2011), nella quale propone e argomenta la sua tesi in ben 224 pagine, evoluzione del progetto di dottorato condotto a Berkeley, California.
Se le sue idee sono arrivate a essere sostenute da riviste come The New York Times o Wired America e a essere tradotte in decine di Paesi, viene da pensare che una giustificazione a certe strampalate parole ci sia.
Non è la prima volta del resto che tesi contro-intuitive in merito al potenziale dei videogame sul cervello umano si fanno avanti. Già nel 2005, Steven Johnson aveva pubblicato un libro dal titolo Tutto quello che fa male ti fa bene (Mondadori, 2005) nel quale scriveva che “fino a oggi è stata effettuata pochissima ricerca su come i videogame riescano a insegnare ai ragazzi senza che essi si rendano conto che stanno imparando.”
Jane Mc Gonigal fa risalire la sua lettura pedagogica nei confronti dei videogame a un assioma difficilmente confutabile. “Il mondo reale non offre i piaceri, le sfide, i facili legami sociali, le gratificazioni degli ambienti virtuali che sono progettati per renderci felici”. In altri termini, “sentiamo che nella realtà non siamo bravi come quanto nei giochi”. Di fronte allo schermo, in condizioni di elevata sollecitazione emotiva e fisiologica, le persone riescono a raggiungere performance molto elevate che spesso non sono capaci di raggiungere nella vita quotidiana. In particolare, sono costrette a reagire immediatamente di fronte alle scelte. Prendere decisioni in vista di un obiettivo predefinito è una condizione che eleva subito il cervello a uno stadio di potenza. Che si trasforma in piacere, quando a questa si aggiunge la sensazione di gratificazione: un rilascio di endorfine che viene associato all’ aver fatto la scelta giusta, superato l’ostacolo, schivato il nemico o trovato l’aiuto. Nella vita reale non ci troviamo mai in una condizione simile.
Come possiamo trasportare quei sentimenti dai giochi e applicarli al mondo reale? Si è chiesta Jane Mc Gonigal. I video game, specie se multiplayer come lo storico World of Warcraft (tredici milioni di utenti attivi) richiedono a ciascun giocatore prove calibrate in relazione alle proprie capacità e soprattutto si fondano su un meccanismo di cooperazione e fiducia tra i singoli che agiscono in modo autonomo, ma condiviso. Principi, questi, che sono spesso alla base delle più virtuose filosofie sociali.
Dal 2006 a oggi, Jane Mc Gonigal ha messo on line diversi giochi con i quali dare prova dell’efficacia della sua tesi. Evoke, Superstruct, The lost ring o World without oil. In quest’ultimo, i giocatori erano chiamati a immaginare lo scoppio di una crisi petrolifera di livello mondiale, documentando sul web l’impatto che la carenza di petrolio avrebbe avuto sulla loro vita di tutti i giorni. A ciascuno è stato chiesto di aprire un blog, di pubblicare video e fotografie che testimoniassero la vita in un ipotetico mondo in cui il petrolio non ci sarebbe più stato. Ad ascoltare la creatrice, i 1.700 protagonisti che presero parte a quel gioco, hanno in gran parte, conservato comportamenti ecosostenibili.
In Superstruct , la scintilla narrativa veniva dall’ipotesi che l’umanità dovesse avere ancora solo 23 anni da vivere. In quella occasione 5.000 persone hanno giocato in modo collaborativo e aperto, per cinque settimane, alla ricerca di soluzioni valide per la sopravvivenza.
A differenza di quanto la parola gioco e giocatore ci abbiano lasciato credere in questi secoli, dietro quel modo di perdere tempo si può nascondere un modello di comportamento utile all’umanità. Se, come diceva John Dewey, pedagogista americano dell’inizio del Novecento “l‘apprendimento collaterale, può essere e spesso è molto più importante perché codeste attitudini sono quel che conta veramente nel futuro” possiamo forse trovare speranza di cambiamento anche nei videogame?
Pamela Pelatelli