“Quelli della Protezione Civile ci avevano detto che sarebbero arrivati venti centimetri d'acqua. Ci hanno dato dei sacchetti bianchi da mettere sotto le porte”. A due settimane di distanza da una delle più terribili alluvioni che ha colpito la regione Veneto, i sacchetti sono ancora là, lungo i muretti delle ville, o ai bordi del fosso che costeggia la strada principale di Bovolenta. Sacchetti inutili, visto che nella notte tra il 31 Ottobre e il 1° Novembre, di centimetri d'acqua ne siano arrivati non 20, ma 150. A spiegarmelo è un imprenditore del settore tessile, che aggiunge: “dentro la fabbrica abbiamo sollevato tutti i materiali di mezzo metro, a farla grande, ma se mi avessero detto che sarebbero arrivati due metri d'acqua avrei fatto caricare la roba in camion e l'avrei portata via, da un'altra parte”. Invece, chi come lui, ora, si trova a doversi infilare gli stivali e impugnare una pala, non può far altro che sperare nell'arrivo di un aiuto economico da parte dello Stato.
Alternative, infatti, non ce ne sono. Un’assicurazione sulle calamità naturali, qui a Bovolenta, non ce l’aveva nessuno, nonostante il territorio tra i due fiumi – il Bacchiglione e il Vigenzone, quest’ultimo un canale – fosse stato giudicato (Delibera num. 1 del 3 marzo 2004) dall’Autorità di Bacino “ad elevato rischio idraulico, classificazione P4”. Del resto, in Italia le polizze si guardano bene dall’offrire prezzi competitivi per questo tipo di disastri, e non c’è da stupirsi… solo per quanto riguarda le alluvioni (non disastri naturali, alluvioni) di questo autunno (non anno, autunno):
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9 settembre 2010: alluvione e colata di detriti nel comune di Atrani (provincia di Salerno);
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4 ottobre 2010: alluvione a Genova, Varazze, Cogoleto;
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1 novembre 2010: alluvione in Veneto;
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10 novembre 2010: alluvione nella piana del Sele (di nuovo: provincia di Salerno).
Quattro alluvioni nel giro di due mesi, con miliardi di danni a edifici, infrastrutture e attività commerciali. Miliardi di danni che nessuna assicurazione sarebbe in grado di coprire. E infatti le polizze contro le calamità naturali hanno un costo base di 10-12.000 euro all’anno, circa 1.000 euro al mese, che per un impresa medio-piccola (100-120.000 euro di fatturato all’anno) corrisponde al 10% delle entrate. Chi rinuncerebbe a tanto per un “elevato rischio idraulico” di cui nessuno lo ha mai messo in guardia? Non certo un veneto, verrebbe da dire, con una certa sufficienza.
In realtà, la questione è più articolata, e va aggiunto un altro elemento: l’Italia è uno dei pochi paesi europei in cui manca una legge che costringa da una parte chi costruisce e dall’altra chi compra un immobile ad assicurarlo contro calamità naturali in caso di rischio. Il tema era tornato alla ribalta dopo il terremoto all’Aquila, col ministro Brunetta che aveva ribadito la necessità di un sistema misto Stato-assicurazioni: si responsabilizzerebbero di più sia i proprietari che gli enti locali, i quali pagando parte del premio assicurativo, avrebbero più interesse a controllare che gli edifici siano costruiti a norma. Parole registrate dai giornalisti e stampate su qualche quotidiano. In sostanza: un nulla di fatto. Anche perché la proposta aveva subito scatenato le polemiche delle associazioni dei consumatori (Adusbef, Federconsumatori e Codacons): la polizza obbligatoria sulle calamità naturali non farebbe altro che ingrassare le casse delle compagnie, così come avvenuto per l’RC auto che negli anni ha fatto registrare aumenti insostenibili. Inoltre, la polizza anticalamità non serve se la casa è costruita bene.
Non è dato sapere cosa voglia dire nei fatti “costruita bene”, ma tant’è: 1.000.000.000 di euro è la stima dei danni causati dall’alluvione che ha colpito il Veneto, e lo Stato, per ora, ha garantito soltanto 300 milioni. Il Presidente della Regione Luca Zaia, nel frattempo, è stato nominato commissario all’emergenza, e questa carica gli conferirà senza dubbio dei P.S.N.M.I., Poteri Straordinari Non Meglio Identificati. Perché chiamarli così? Perché sono così tanti e diversi tra loro che è come avergli detto: fai quello che ti pare, basta che risolvi la situazione. D’ora in avanti, infatti, Zaia dovrà/potrà varare un “piano degli interventi” per superare l’emergenza; autorizzare l’occupazioni di terreni utili; convocare conferenze dei servizi con procedura sprint per dare il via ai lavori; dare contributi alle famiglie e alle persone che sono state sfollate e/o indennizzi a chi deve mettere mano a edifici lesionati e/o fondi per le imprese danneggiate che devono ricomperare macchinari o hanno perso scorte di materie prime; sospendere per due mesi tutti gli adempimenti e versamenti di contributi nonché tutti i versamenti dovuti per Irpeg, Irpef, Iva, Irap e altre tasse per i lavoratori autonomi e liberi professionisti coinvolti.
Tutto nelle mani di un solo uomo, della serie. Ma prima di arrivare a tanto, era possibile prevenire il disastro, o almeno limitare i danni? Per capirlo, è bene avere chiaro in mente cos’è successo quella notte. Innanzitutto un dato: 500 mm di pioggia in 48 ore. A leggerlo così – mezzo metro d’acqua – non sembra neanche tanto, ma se si considera che la media della precipitazioni nella regione Veneto è di 1052 mm/anno, è come se avesse piovuto in due giorni quello che doveva piovere in sei mesi! Al che bisogna aprire una piccola parentesi: la colpa è anche nostra, o meglio, dei cambiamenti climatici causati dall’uomo. Attenti a come, però. Le precipitazioni medie annuali registrate in Veneto nel decennio ’56-’66 erano intorno ai 1230 mm; nel ’67-’81 sono scese a 1120; e dall’82 al 2004 hanno continuato a scendere, fino a toccare i 1052 mm (fonti Arpav). In pratica (e qui sta l’imprevedibilità dei cambiamenti climatici), la regione ha seguito il trend dell’area mediterranea – desertificazione – e questa, a sua volta, quello globale – aumento dei fenomeni estremi. Tradotto: piove meno ma in modo più violento.
A questa responsabilità “globale”, ne va aggiunta una seconda, tutta italiana: la cementificazione del territorio. Ogni anno – dati stopalconsumoditerritorio.it – il paese viene ricoperto di catrame a un ritmo di 250.000 ettari (alias 25.000.000.000 metri quadri). Hai voglia poi a pretendere che il terreno assorba acqua e che l’acqua vada a finire nelle falde acquifere invece che nei fiumi. Ecco che i 500 mm di pioggia che fino a trent’anni fa non avrebbero creato alcun danno, oggi cadono su una superficie che somiglia a questa ++++____+__++__++++, dove i + rappresentano il terreno ancora libero e i _ il cemento. Quella notte, di conseguenza, i fiumi del basso Veneto hanno ricevuto una tale quantità di acqua da ogni tipo di affluente possibile e immaginabile, che a un tratto gli argini sono crollati in diversi punti, e i paesi vicini – quasi tutti all’interno di quelle che i geologi chiamano conche – sono stati allagati in meno di un’ora.
L’acqua ha sommerso i sacchetti bianchi, con buona pace della Protezione Civile, rotto le tubature, invaso le taverne delle case, gli allevamenti di polli, è uscita dai lavandini e dalle tazze del cesso, sfondato le finestre e i portoni delle fabbriche, e insomma ha fatto quello che si chiama in dialetto veneto un bel casìn. In alcuni casi, poiché le idrovore hanno impiegato qualche giorno ad arrivare, l’acqua rimasta ha avuto il tempo di infiltrarsi nei muri e risalire fino ai tetti, per cui i poveri malcapitati si sono visti piovere dentro casa. In un secondo momento, liberate le zone dall’acqua, i cittadini si sono rimboccati le maniche, e hanno cominciato a ripulire dal fango quel che si poteva recuperare.
A dare loro una mano è arrivata, di nuovo, la Protezione Civile e qualche volontario, ovvero: i soccorsi. Per qualche giorno io sono stato uno di loro, e posso dire che la mancanza di uno Stato forte (lo stesso che avrebbe saputo imporsi nella polemica tra assicuratori e associazioni dei consumatori – v. sopra) è evidente. La buona volontà c’è, ma è gestita secondo principi di improvvisazione, fai-da-teismo, cialtronaggine, inettitudine… del tipo: i poliziotti lungo la strada che porta alla zona industriale di Bovolenta (poliziotti che sono lì per Motivi N.M.I.), non mi hanno saputo dire dov è la zona industriale di Bovolenta – “so che B. è di là, ma non sono di queste parti, mi spiace…”. Dal canto suo la P.C., intorno all’ora di pranzo, si presenta in veste di uno o due volontari con un sacchetto di panini e qualche bottiglietta d’acqua, e per chi ha bisogno di guanti per proteggere le mani dal rischio di infezioni, basta rivolgersi all’apposito tendone. Le zone colpite sono inoltre alla mercé di chiunque: per passare quello che sembra, almeno da lontano, un posto di blocco, basta inventare delle scuse, come ad esempio: “sono qui per aiutare… Mario Staccoli!”; oppure: “mi mandano quelli della parrocchia, porto delle coperte a un amico” (nel mio caso è stato: “devo portare via dei computer della T&T”). Nessun controllo serio, nessuna registrazione, niente suddivisione dei compiti.
Ho assistito di persona a questa scena: due della P.C. entrano nella taverna di un uomo, che chiede loro se può bucare col trapano per far scendere l’acqua. La coppia guarda il soffito, imbarcato dal peso e gocciolante, e dice che sì, si può fare, non ci sono problemi perché non si tratta di un muro portante. L’uomo ringrazia, i due se ne vanno. Ora, non sono un esperto di ingegneria civile, ma è possibile condurre un sopralluogo in questo modo? A ben vedere sì: se il soffitto crolla, chi potrà accusare la P.C. di aver toppato? L’alluvionato?…
Gli effetti di questa filosofia all’italiana sono deleteri: la buona volontà da un lato e la mancanza – ancora una volta – di un regista dall’altro, hanno fatto sì che fossero accumulati beni di prima necessità senza verificarne l’effettiva quantità utile. Ora, se uno entra nel centro sportivo di Casalserugo, altro paese colpito dall’alluvione, si trova di fronte a montagne di vestiti, detersivi, cibo in scatola; eppure, rimane tutto là, come un’installazione di arte contemporanea. I motivi di questo spreco sono molteplici e probabilmente complementari. Per prima cosa, non siamo di fronte a un bombardamento: le case non sono crollate e molte cucine e abitazioni sono ancora accessibili, per cui la gente ha continuato a viverci dentro, nonostante il piano di sotto fosse inagibile. Secondo, siamo in Italia, paese in cui la famiglia è al primo posto nella scala dei valori: i fratelli hanno aiutato i nipoti, le figlie si sono prese cura dei nonni, gli zii sono andati a dormire dalle cugine; risultato: quasi nessuno si è trovato solo al 100%. Terzo, aspettarsi che un veneto – uno che di solito si è fatto da solo, parla poco, si fida poco, ha sempre lavorato e sempre lavorerà – entri nel palazzo sportivo per fare quello che ai suoi occhi (e agli occhi della piccola comunità di veneti che lo circonda) appare come una richiesta di carità, aspettarsi questo significa, molto banalmente, non conoscere il territorio in cui si opera.
Eppure, di fronte all’apparente inevitabilità dei disastri ambientali in Italia (a cui ci siamo rassegnati ormai come all’AIDS africana o ai kamikaze mediorientali) le soluzioni ci sono, e non richiedono nemmeno sforzi di ingegneria troppo elevati. Basterebbe citare l’antica popolazione precolombiana dei Sinù, conosciuta in tutto il mondo per il sistema di canalizzazione utilizzato per irrigare enormi terreni soggetti a inondazioni periodiche (sistema che dall’alto somiglia a una serie di gigantesche foglie di felci) ben prima dell’arrivo di Colombo in America. Ma non è necessario andare così indietro nel tempo. Il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco parla in questi termini: riqualificazione del territorio, diminuzione del consumo di suolo, delocalizzazione dei beni esposti al rischio devono essere le parole d’ordine nel piano di messa in sicurezza del territorio. Solo così sarà possibile invertire il processo di sfruttamento e consumo di territorio, prendendo atto che la sicurezza, fruibilità e bellezza di un bacino idrografico dipendono prima di tutto dagli usi cui si destina.
Nel rapporto Ecosistema rischio 2010, firmato Legambiente, a parlare sono i numeri: 161 sono i comuni veneti a rischio idrogeologico, di cui 41 a rischio frana, 108 a rischio alluvione e 12 a rischio frana+alluvione. Inoltre, si legge nel rapporto, “se osserviamo le aree vicino ai fiumi, salta agli occhi l’occupazione crescente delle zone di espansione naturale con abitazioni ed insediamenti industriali e zootecnici”. E più avanti segue una sfilza di altre responsabilità, tra cui scarsa manutenzione dei corsi d’acqua e delle opere di protezione idraulica, eccessiva antropizzazione, la già vista cementificazione, e via dicendo.
Il quadro, in conclusione, non è per niente incoraggiante. I dati della Coldiretti forniscono un’idea chiara dei danni causati dall’alluvione: oltre centomila tacchini, ventimila polli, cinquemila conigli e centinaia di maiali e mucche – per un totale di circa 200 mila animali – sono morti annegati. Inoltre, “sono andati persi interi raccolti di tabacco già essicato in magazzino, compromesse le coltivazioni di ortaggi, distrutte serre e fungaie, con perdite complessive di decine di milioni di euro”. Ma anche le fabbriche sono in ginocchio: ripulito il fango e rimpiazzati i materiali, resta da vedere quanti macchinari – macchinari da centinaia di migliaia di euro l’uno – ripartiranno una volta asciutti. Pochi, secondo gli stessi imprenditori, forse nessuno.
La percezione dell’accaduto da parte della popolazione vicina, poi, sembra il frutto marcio di anni di isolamento culturale. A parte i volontari, i donatori, le parrocchie, le banche come l’Unicredit che ha sospeso i mutui degli interessati, a parte gli esempi di generosità, qualche veneto, “abituato da sempre a far tutto da solo” (parole degli intervistati ai tg), ha commentato così la condizione dei suoi vicini finiti sott’acqua: “no gheo go miga ditto di mi de versare una fabbrica” (trad: “non gliel’ho mica detto io di aprire una fabbrica”); oppure: “mi no dago una man parché xe n’ingiustisia che g’abbia da far tutto i cittadini” (“io non do una mano perché è un’ingiustizia che debbano fare tutto i cittadini”); o ancora: “quea xe sente che gà i schei, al posto loro mi sararia tutto e ‘ndaria ae Maldive” (“quella è gente con i soldi, al posto loro io chiuderei tutto e andrei alle Maldive”).
Purtroppo, tragica ironia della sorte, a mancare è proprio lui, il protagonista del boom economico italiano, quello che ha fatto la fortuna del Veneto e ha reso piccoli comuni della pianura padana ricchi come intere nazioni del terzo mondo; a mancare è ciò che ha portato benessere a spese del territorio e della qualità dell’aria, rendendo il nord Italia una delle cinque zone più inquinate del mondo; a mancare sono proprio loro: i schei. Il governatore Luca Zaia, da “uomo del popolo” quale ama definirsi, non lo nasconde, e a ogni occasione ribadisce la necessità di donazioni. Saprà anche dimostrare di essere “un uomo di governo”, evitando che disastri simili accadano di nuovo? Qualunque sarà la risposta, di certo ne dovrà passare ancora molta, di acqua… sotto i ponti.
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SMS del valore di 2 euro verso il numero 45501 oppure chiamare lo stesso numero da rete fissa Telecom Italia (fino alla mezzanotte del 30 novembre);
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Conto corrente Solidarietà famiglie padovane alluvionate: aperto dal Comune di Padova; Iban: IT70 U062 2512 1861 0000 0000 107;
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Conto corrente presso Unicredit Banca per conto della Regione Veneto; Iban: IT62 D020 08020 170 0010 1116 078;
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Conto corrente presso la Cassa di risparmio del Veneto per conto della Provincia di Padova; Iban: IT82 N062 2512 1860 6700 0075 79K;
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Conto corrente postale n. 10292357 intestato a Caritas diocesana di Padova, specificando nella causale “Alluvione novembre 2010“;
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Al link http://www.partitodemocratico.it/alluvioneveneto/, oppure a quest’altro, se preferite: http://www.leganord.org/dblog/articolo.asp?articolo=2374 troverete altri due conti correnti per effettuare donazioni, rispettivamente aperti dal Partito Democratico e dalla Lega Nord.
- Roberto Zambon