Anche in Italia si parla sempre più spesso di greenwashing: si tratta della cattiva abitudine, da parte delle aziende, di presentarsi come “green” anche quando di verde c’è solo il colore di un cartellone pubblicitario o qualche frase a effetto. Come possono fare i consumatori più attenti a difendersi da questo fenomeno che purtroppo interessa sempre più marchi? E’ semplice: basta individuare alcuni evidenti errori di comunicazione che non sfuggono agli occhi smaliziati dell’acquirente consapevole.
Anche in Italia si parla sempre più spesso di greenwashing: si tratta della cattiva abitudine, da parte delle aziende, di presentarsi come “green” anche quando di verde c’è solo il colore di un cartellone pubblicitario o qualche frase a effetto. Come possono fare i consumatori più attenti a difendersi da questo fenomeno che purtroppo interessa sempre più marchi? È semplice: basta individuare alcuni evidenti errori di comunicazione che non sfuggono agli occhi smaliziati dell’acquirente consapevole.
In questo ci aiuta anche la ricerca di Greenbean – azienda specializzata proprio nella comunicazione sostenibile – presentata ieri al Salone della Responsabilità Sociale d’Impresa “Tra il dire e il fare”. Secondo lo studio, esistono infatti sei indizi che ci possono far capire se ci troviamo davanti a un’azienda che “gioca” con la voglia di sostenibilità delle persone senza però voler investire concretamente in politiche produttive e distributive davvero green.
Il caso più diffuso è quello di evidenziare una singola caratteristica di un prodotto senza affrontare altri importanti aspetti correlati alle politiche aziendali. Si può citare, a titolo di esempio, la campagna estiva lanciata da Nestlé: la multinazionale con sede a Vevey ha pubblicizzato gelati dalle confezioni più green, ma che dire della sua sostenibilità complessiva? Servirebbe molto di più, nel caso di una realtà economica così importante, per guadagnarsi il fatidico “bollino green”.
Un’altra pratica molto comune è negare informazioni a supporto di un’affermazione: si dice che il prodotto è verde, ma non si spiega esattamente rispetto a cosa e non si forniscono dati quantitativi, frustrando così il bisogno di conoscenza dell’acquirente.
C’è poi chi “autocertifica” le proprie credenziali green, mentre sarebbe opportuno ricorrere a enti esterni e imparziali. Non manca chi enfatizza iniziative green irrilevanti rispetto all’impatto socioambientale complessivo dell’azienda stessa, riuscendo allo stesso tempo a distrarre l’attenzione del consumatore
Si arriva infine all’estremo di utilizzare elementi grafici e comunicativi che richiamano una sostenibilità di fatto inesistente.
Insomma, un quadro complesso in cui per orientarsi occorre colpo d’occhio e attenzione al dettaglio. Anche perché, via via che aumenta il numero di consumatori consapevoli, le aziende cercano sempre più di darsi un’aurea green che non sempre corrisponde alla realtà. Col rischio concreto di compromettere il rapporto di fiducia con i potenziali acquirenti e di frenare lo sviluppo anche di chi è green per davvero.
Agli amanti della sostenibilità non resta che orientarsi verso chi fa della trasparenza il proprio marchio di fabbrica. Chi è veramente green non ha paura di fornire informazioni facilmente comprensibili ed esaurienti; non teme un ente di certificazione esterna; non ha bisogno di campagne di grande impatto mediatico ma di ridotta rilevanza ambientale.
Insomma, gli strumenti per smascherare i professionisti del greenwashing ci sono: impariamo a usarli per dare fiducia soltanto a chi, per serietà e visione complessiva, dimostra di meritarla veramente.
Doris Zaccaria
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