Clima in pericolo: la COP29 senza i leader che servono nell’anno più caldo di sempre

La COP29 di Baku si svolge in un 2024 destinato a essere l'anno più caldo mai registrato. Tuttavia, la conferenza vede l'assenza di leader chiave come von der Leyen, Macron e Biden, suscitando dubbi sulla capacità globale di affrontare efficacemente la crisi climatica

È “praticamente certo” che il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato, secondo quanto rilevato dal programma spaziale dell’Unione europea, Copernicus. Questa non certo rassicurante constatazione arriva alla vigilia della COP29, in programma dall’11 al 22 novembre, ospitata dal petrol-Stato di turno, l’Azerbaijan (dopo gli Emirati Arabi Uniti nel 2023 e l’Egitto nel 2022).

Nel frattempo, la crisi climatica è diventato un problema ancora più preoccupante dopo che la maggioranza degli elettori negli Stati Uniti, il più grande inquinatore storico di gas serra, ha scelto di riportare alla presidenza Donald Trump, noto per le sue posizioni scettiche sul cambiamento climatico e per aver ritirato il Paese dall’Accordo di Parigi durante il suo precedente mandato.

In un contesto di incertezza e preoccupazione, la conferma dell’assenza di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, alla 29° Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha alimentato il dibattito sull’impegno dell’Ue nella lotta ai cambiamenti climatici.

Von der Leyen, che ha giocato un ruolo chiave nel consolidamento dell’Europa come leader della transizione ecologica, ha scelto di rimanere a Bruxelles per concentrarsi sulla transizione istituzionale e sul suo nuovo team di commissari, con il secondo mandato che partirà il 1° dicembre. Questa decisione, considerata da Michael Bloss, eurodeputato verde tedesco, come “un segnale fatale”, solleva dubbi sulla capacità dell’Ue di mantenere una leadership forte in un momento cruciale per il clima.

L’assenza di von der Leyen si inserisce in un quadro di defezioni rilevanti: anche Emmanuel Macron, presidente francese, e Joe Biden, presidente uscente degli Stati Uniti, non parteciperanno. La scelta di Biden, dettata dalle recenti elezioni, acuisce l’incertezza sulla futura politica climatica americana, specialmente con il ritorno di Trump. L’annullamento della partecipazione del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, per motivi di salute, e l’assenza di leader di Paesi come Cina, Giappone, Australia e Sudafrica accentuano la preoccupazione per un summit in cui la voce delle principali potenze rischia di essere meno influente.

L’Ue sarà rappresentata dai commissari per il clima Wopke Hoekstra e per l’energia Kadri Simson, ma la mancata partecipazione della von der Leyen rischia di lasciare un vuoto simbolico e operativo. Shirley Matheson, del WWF, ha sottolineato come la contemporanea assenza di diversi leader di spicco possa compromettere la spinta necessaria per affrontare la crisi climatica con urgenza. Il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ospiterà l’evento, sollevando timori che la conferenza possa diventare una vetrina di greenwashing più che un incontro produttivo.

Nonostante non sia noto per la sua forte e chiara posizione sulle questioni climatiche, l’intervento del presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, previsto per il 13 novembre, potrebbe assumere un ruolo di rilievo. Le sue dichiarazioni coincideranno con le discussioni sui finanziamenti per la transizione ecologica nei Paesi in via di sviluppo, un punto cruciale della COP29, ribattezzata da molti la “COP finanziaria”. Si prevede di affrontare il superamento del fondo annuo di 100 miliardi di dollari promesso (e mai manutenuto, di fatto) ai Paesi in via di sviluppo e di delineare nuove strategie finanziarie per il post-2025.

Sven Harmeling, di Climate Action Network Europe, ha minimizzato la correlazione tra l’assenza di von der Leyen e un disimpegno dell’Ue, rimarcando però che la presenza di figure chiave avrebbe rafforzato il messaggio di leadership. Nonostante le rassicurazioni della Commissione sul fatto che l’Ue continuerà a giocare un ruolo centrale nei negoziati, il peso simbolico delle defezioni rimane rilevante.

La (probabile) presenza di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, e dei delegati europei di alto livello tenta di mantenere la centralità dell’Ue al tavolo climatico, ma restano i timori di un vertice segnato più da retorica che da azioni concrete. La scelta dell’Azerbaigian come Paese ospitante, noto per il suo legame con l’industria dei combustibili fossili, accentua queste preoccupazioni.

A ciò si aggiunge il fatto che la scelta di Baku come sede della COP29 solleva, giustamente, diverse preoccupazioni. L’Azerbaijan, uno dei maggiori produttori di gas e petrolio, ha promesso di aumentare la quota di energia rinnovabile al 30% entro il 2030, ma la realtà è ben diversa: nel 2023 ha incrementato la produzione di gas per rispondere alla domanda energetica europea, che acquista gas azero per ridurre la sua dipendenza dalla Russia.

In questo contesto, la costruzione di nuovi impianti energetici, come il parco eolico di Khizi-Absheron, appare più che altro un tentativo di greenwashing piuttosto che un passo concreto verso la transizione ecologica. Progetti come questo sono infatti destinati principalmente a produrre energia per l’interno, liberando risorse fossili per l’export, senza ridurre di fatto le emissioni climalteranti.

Sul fronte politico, la situazione in Azerbaijan è altrettanto preoccupante. Più di 300 attivisti, giornalisti e oppositori politici sono attualmente in carcere. Organizzazioni internazionali denunciano la crescente repressione delle libertà civili. Un esempio lampante è la repressione nei confronti dei membri del movimento Nida, che, nato nel 2011 come risposta alle Primavere Arabe, è stato sistematicamente ridotto al silenzio dal governo azero.

Il governo di Ilham Aliyev ha recentemente intensificato la sua guerra contro l’Armenia, occupando militarmente il Nagorno-Karabakh e distruggendo una regione popolata da etnia armena.

La “green energy zone” promossa per il Nagorno-Karabakh è un tentativo di presentare la guerra come un’opportunità per la transizione ecologica, ma nella realtà, le azioni del governo azero sono più legate a scopi geopolitici e di profitto economico che a una vera tutela ambientale. La devastazione dei territori e l’inquinamento provocato dalla guerra mettono in evidenza l’ipocrisia di un Paese che, pur ospitando la COP29, continua ad aggravare la crisi ambientale.

Inoltre, la continua espansione delle estrazioni di combustibili fossili è emblematicamente rappresentata dalla gigantesca Socar Tower a Baku, simbolo del legame tra il Paese e le sue risorse petrolifere. Le politiche ambientali sono di fatto subordinate agli interessi economici della compagnia statale, che continua a puntare sul gas e sul petrolio, senza una strategia chiara per ridurre le sue emissioni. Così, mentre l’Azerbaijan cerca di promuoversi come paladino della sostenibilità, la realtà è che continua a rimanere ancorato a un modello energetico insostenibile.

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