Il colosso dell’e-commerce cinese è intervenuto al Venice Sustainable Fashion Forum con una nuova narrativa di sé. L'azienda sembra voler rispondere alle crescenti pressioni da parte di consumatori, organizzazioni ambientaliste e autorità di regolamentazione, che chiedono maggiore trasparenza e impegno in direzione della sostenibilità (ambientale e sociale)
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In un’industria dove l’impatto ambientale e la sovrapproduzione sono questioni centrali, Shein sostiene di distinguersi grazie a un modello produttivo che produce soltanto sulla base della reale domanda.
Al Venice Sustainable Fashion Forum, Peter Pernot-Day, responsabile delle Relazioni Strategiche per Shein in Nord America ed Europa, difende la visione e il modello produttivo del brand, contestando l’etichetta di “ultra fashion” o “fast fashion”. Ad Andrea Cabrini, direttore di Class CNBC e Class Life che l’ha intervistato proprio a Venezia, Pernot-Day ha spiegato: “Non usiamo il termine fast fashion né ultra fashion. Preferiamo definirci moda on-demand”.
La proposta di Shein
Ma come funziona, concretamente, questo modello? “I nostri designer producono una tiratura iniziale di soli 100 capi per ogni articolo. Questi vengono messi in vendita sui nostri siti web di e-commerce e misuriamo la risposta dei clienti, dalle vendite alle interazioni sulla nostra applicazione mobile. Solo se c’è interesse, torniamo dai nostri produttori e ordiniamo una seconda tiratura, di 400 o 800 unità. In questo modo, evitiamo di produrre più di quello che il mercato vuole effettivamente acquistare”, ha spiegato Pernot-Day.
Un modello che sembra incontrare il favore della Gen Z. “Il nostro cliente principale, che a livello globale è donna, di solito tra i 18 e i 33 anni, ci consente di offrire una varietà molto ampia di vestiti e taglie, e questa inclusività ha avuto una forte risonanza con la Generazione Z”.
La catena di approvvigionamento di Shein è un punto cruciale. “Eliminando il rischio di inventario, garantendo che siamo solo online, monitorando attentamente i margini e utilizzando un sistema di gestione dei fornitori completamente digitalizzato, siamo in grado di raggiungere economie di scala e prezzi dei materiali molto competitivi”.
L’azienda lavora con circa 5.800 fornitori, principalmente piccole e medie imprese, in Cina, Brasile e Turchia. “Abbiamo tolleranza zero per il lavoro forzato e il lavoro minorile“, ha assicurato Pernot-Day. “Vogliamo che i luoghi di lavoro siano sicuri. Lo facciamo attraverso un codice di condotta dei fornitori, audit regolari – ne abbiamo condotti quasi 4.000 nel 2023 – e un programma di responsabilizzazione della comunità dei fornitori, con un investimento di 70 milioni di dollari per aiutarli ad aggiornare le loro strutture con tecnologie più sostenibili come la solarizzazione, la stampa termografica digitale e il trasferimento a freddo”.
Le incognite sociali e ambientali
Ma dietro il modello “on-demand” si nascondono diverse ombre. La velocità di produzione e l’enorme volume di capi nuovi introdotti ogni giorno rimangono un punto critico per l’azienda, alimentando il consumo eccessivo e la rapida obsolescenza dei vestiti. E, di conseguenza, anche la cultura dell’usa e getta e la produzione di rifiuti.
Inoltre, nel 2022 l’impronta di carbonio dell’azienda è stata di 9,17 milioni di tonnellate di CO2, salita a 23,16 milioni di tonnellate nel 2023. “Un aumento davvero notevole”, ha commentato Cabrini. Pernot-Day ha giustificato questo dato con la crescita del business, ma ha ribadito l’impegno di Shein per la sostenibilità: “Puntiamo a ridurre le nostre emissioni complessive di carbonio del 25% entro il 2030”.
Tra le iniziative per raggiungere questo obiettivo, Shein collabora con Queen of Raw, una start-up di New York che mappa gli stock di tessuti inutilizzati per integrarli nelle collezioni del brand, riducendo la necessità di nuove risorse.
Ma proprio negli articoli di abbigliamento e accessori venduti da Shein un’indagine condotta nel 2022 da Greenpeace ha rintracciato la presenza di sostanze chimiche pericolose, come ftalati e formaldeide, mettendo in dubbio l’impegno reale dell’azienda per la sostenibilità ambientale e la salute dei consumatori.
Non mancano poi le preoccupazioni per la sostenibilità sociale del colosso cinese. Un’indagine della Ong svizzera Public Eye, pubblicata lo scorso maggio, ha rivelato condizioni di lavoro precarie e salari bassi in alcune fabbriche che producono per Shein, sollevando dubbi sulla reale efficacia dei controlli e degli audit effettuati dall’azienda. L’indagine, basata su interviste a dipendenti di fabbriche Shein in Cina, ha documentato turni di lavoro massacranti, paghe al di sotto del minimo legale e violazioni delle norme di sicurezza.
Shein si è difesa anche dalle accuse di greenwashing – l’Antitrust italiana ha avviato un’istruttoria contro l’azienda proprio per questo motivo – e di violazione della proprietà intellettuale, con l’utilizzo di “messaggi promozionali generici, vaghi e indeterminati” per promuovere la sostenibilità dei suoi prodotti e diverse accuse di plagio mosse ai designer del brand.
Pernot-Day ha poi ribadito l’impegno di Shein per la trasparenza e la protezione della proprietà intellettuale: “Abbiamo team sia negli Stati Uniti che in Cina che esaminano attivamente i progetti prima che vengano pubblicati sul sito per garantire che non violino alcun diritto.” Ha inoltre menzionato il programma SheinX, un incubatore di design che supporta designer e artisti indipendenti, come esempio dell’impegno di Shein per la creatività e l’innovazione.
Shein e l’impegno in Europa
Guardando al futuro, Shein mira a rafforzare il proprio legame con il mercato europeo. L’azienda ha recentemente aperto un ufficio a Milano e lanciato un marketplace italiano, che permette alle aziende locali di utilizzare la piattaforma per accedere a una clientela globale. “Abbiamo un team in Europa che lavora con gli stakeholder a Bruxelles per affrontare le sfide legislative emergenti”, ha affermato Pernot-Day, suggerendo come Shein punti a espandere il modello on-demand anche attraverso fornitori e partner europei per ridurre le emissioni legate alla logistica.
L’azienda sembra ora voler rispondere alle crescenti pressioni da parte di consumatori, organizzazioni ambientaliste e autorità di regolamentazione, che chiedono maggiore trasparenza e un impegno concreto per ridurre l’impatto ambientale e sociale del settore della moda.
Non resta che chiedersi se le dichiarazioni di Pernot-Day si tradurranno in azioni concrete.
Riuscirà Shein a conciliare la sua natura di gigante dell’e-commerce, basata su prezzi bassi e volumi di vendita elevati, con un modello di produzione veramente sostenibile? Sarà in grado di garantire condizioni di lavoro eque e dignitose in tutta la sua catena di approvvigionamento? E riuscirà a ridurre in modo significativo la sua impronta ambientale, limitando l’uso di sostanze chimiche pericolose e promuovendo un consumo più responsabile?
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