L'indignazione per la diffusione delle foto dell'ex membro degli One Direction senza vita svela un'empatia selettiva e una gerarchizzazione del dolore nel mondo mediatico. Riflettiamo sul perché ci sentiamo più coinvolti da tragedie che ci toccano da vicino
Un volo di quasi 14 metri dal terzo piano del Casa Sur Hotel Palermo (Buenos Aires), e la vita di Liam Payne, ex membro degli One Direction, si spegne tragicamente. All’arrivo dei soccorsi non c’è stato nulla da fare. Il 31enne è stato dichiarato morto sul posto.
Una notizia che ha sconvolto il mondo, lasciando attoniti milioni di fan. Ma oltre al dolore per la perdita di un giovane talento, è emerso un altro elemento inquietante: la diffusione di foto del suo corpo senza vita, catturate e condivise senza alcun rispetto per la sua memoria e per il dolore dei suoi cari.
Questa violazione della privacy, questa morbosa esposizione della tragedia personale, ha scatenato un’ondata di indignazione globale. Fan, amici e familiari hanno espresso il loro sgomento, condannando la mancanza di umanità di chi ha diffuso quelle immagini.
Toni Cornell, figlia del compianto Chris Cornell, ha condiviso pubblicamente il suo dolore, ricordando il trauma di aver visto le foto del suicidio del padre pubblicate da TMZ. Un trauma che si ripete, un dolore che si amplifica a causa della caccia allo scoop.
Ma questa indignazione, per quanto giustificata e comprensibile, ci pone di fronte a un interrogativo scomodo: perché la nostra empatia sembra essere così selettiva? Perché la morte di una pop star, precipitata da un hotel in Argentina, ci colpisce più profondamente della scomparsa di sconosciuti causata da una guerra o da una catastrofe naturale?
Mentre le foto di Liam Payne suscitano orrore e richieste di rimozione, altre immagini di morte e sofferenza – pensiamo ai bambini vittime dei conflitti a Gaza o ai migranti morti in mare – spesso non scatenano la stessa ondata di emozione. Scorrono sui nostri schermi, notizie tra le tante, senza scuoterci nel profondo. Ci lasciano indifferenti, quasi anestetizzati di fronte al dolore altrui.
Qual è la differenza? Forse risiede nella familiarità: il nostro cervello è più propenso a empatizzare con vicende che ci toccano da vicino, con persone che, in qualche modo, sentiamo legate alla nostra vita.
Liam Payne, con la sua musica e la sua presenza mediatica, faceva parte del nostro immaginario, del nostro quotidiano. La sua morte ci ha colpito perché lo sentivamo familiare, chi un amico, chi un fratello.
Al contrario, facciamo più fatica a entrare in contatto con la sofferenza di chi è lontano, di chi non conosciamo. Le tragedie che si consumano in Paesi altri, le guerre che vediamo solo in televisione, ci appaiono distanti, irreali. È come se il nostro cervello erigesse un muro per proteggerci da un dolore troppo grande, troppo difficile da gestire. Un po’ come è accaduto con il cambiamento climatico: abbiamo iniziato a prenderlo sul serio (e non tutti, tra l’altro) solo quando i suoi effetti hanno iniziato a manifestarsi nel nostro quotidiano, sull’uscio di casa, con ondate di calore, siccità e alluvioni.
Questo meccanismo di difesa, questa incapacità di gestire emotivamente la sofferenza “lontana”, ci impedisce di sviluppare un’empatia più ampia, più universale. E la morte di Payne, amplificata dal clamore mediatico, mette a nudo proprio la fragilità della nostra empatia.
Non si tratta di sminuire l’indignazione per la morte della giovane pop star o di negare il dolore dei suoi cari. Si tratta, piuttosto, di allargare il nostro sguardo.
Viviamo in un mondo iperconnesso, dove le immagini viaggiano come saette e le notizie si consumano in fretta. Ma questa sovraesposizione all’informazione rischia di farci smarrire il senso del valore della vita.
Con il suo strascico di morbosità mediatica, la morte di Liam Payne ci offre, allora, una preziosa opportunità: fermarci a riflettere.
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