Cacciati dalle terre ancestrali per le tigri: la lotta degli indigeni Adivasi contro lo sfratto forzato

Gli Adivasi si stanno mobilitando contro gli sfratti forzati dalle loro terre ancestrali, ora destinate alla conservazione delle tigri. Nonostante le leggi a loro tutela, queste comunità vengono allontanate dalle foreste che hanno protetto per generazioni

Un’ondata di proteste sta scuotendo l’India, guidata dalle comunità indigene Adivasi che lottano contro gli sfratti forzati dalle loro terre ancestrali, ora trasformate in riserve per le tigri. Migliaia di persone si sono mobilitate in diverse riserve del Paese, come quelle di Nagarhole, Kaziranga, Udanti-Sitanadi, Rajaji e Indravati, chiedendo la cessazione immediata di quelle che definiscono azioni illegali da parte del governo.

L’India ospita circa 3.000 tigri, distribuite in 53 riserve che coprono un’area vasta quanto l’Irlanda. Nonostante siano fondamentali per la sopravvivenza di questa specie in pericolo, la creazione delle riserve ha comportato un costo umano significativo. Dal 1972, il governo indiano ha sfrattato oltre 56.000 famiglie da 751 villaggi all’interno delle aree protette.

La recente spinta della National Tiger Conservation Authority (NTCA) ad accelerare gli sfratti ha scatenato la rabbia delle comunità indigene, che denunciano di non essere mai state consultate prima della trasformazione delle loro terre in riserve e di essere ora costrette ad abbandonare le loro case.

Gli Adivasi sostengono che gli sfratti violano tanto le leggi nazionali quanto quelle internazionali. Il Forest Rights Act del 2006 garantisce loro il diritto di rimanere nelle loro terre ancestrali a meno che non forniscano il consenso informato al trasferimento. L’Ong Survival sottolinea che, nonostante queste protezioni legali, le grandi organizzazioni per la conservazione, come il WWF e la WCS, sono rimaste in silenzio sulla questione, sostenendo che il trasferimento delle popolazioni indigene sia in realtà volontario.

Caroline Pearce, direttrice di Survival International, ha condannato fermamente le azioni del governo indiano, definendole aderenti a un “modello di conservazione coloniale ormai totalmente superato e screditato”. Pearce ha sottolineato il profondo razzismo insito in questo approccio, che considera gli Adivasi cittadini di seconda classe.

Qui è all’opera un razzismo radicato: il governo e le organizzazioni ambientaliste considerano gli Adivasi, nella migliore delle ipotesi, cittadini di seconda classe. Questi sfratti sono illegali secondo il diritto nazionale e internazionale e non funzionano: la foresta, gli indigeni e le tigri non possono sopravvivere l’uno senza l’altro. Le organizzazioni per la conservazione e i tour operator sono complici di questo scandalo: una volta che le persone sono state sgomberate dalle loro foreste ancestrali, il turismo nelle riserve delle tigri è un grande affare.

L’Ong Survival ha evidenziato anche gli interessi finanziari dietro questi sfratti. Una volta allontanate le comunità indigene, le riserve delle tigri diventano spesso destinazioni turistiche redditizie, alimentando la crescente industria del turismo in India. Tuttavia, esistono esempi di coesistenza virtuosa tra conservazione e comunità locali. Nella Periyar Tiger Reserve del Kerala, gli Adivasi lavorano a fianco dei funzionari forestali per proteggere la fauna selvatica, dimostrando che la collaborazione è possibile.

“Abbiamo sempre protetto queste foreste”, ha dichiarato JK Thimma, un attivista Adivasi. “Se il governo si preoccupa davvero della conservazione, dovrebbe lavorare con noi, non contro di noi”.

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