Troppi antibiotici e pesticidi nel salmone cileno: e anche negli USA stanno consigliando di non mangiarlo più

Salmone scozzese, norvegese, irlandese o cileno? Non c'è molta differenza, è sempre prodotto in allevamenti intensivi dove si fa un ampio uso di antibiotici. Negli Usa si sconsiglia il consumo a tutti coloro che vogliono seguire una dieta a basso impatto ambientale

Già conosciamo l’enorme impatto ambientale del salmone prodotto in Scozia, Norvegia e Islanda, argomento che abbiamo trattato più volte nei nostri articoli. Forse non sapete però che esiste anche il salmone cileno che, purtroppo, non è affatto meglio degli altri.

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A parlarne è The Washington Post che riporta alcuni dati rilevanti, in base ai quali alla fine sconsiglia ai consumatori statunitensi – almeno a quelli che ci tengono a seguire una dieta a basso impatto ambientale – di consumare salmone cileno.

In particolare, il salmone prodotto in Cile è stato messo sotto accusa per l’alto utilizzo di antibiotici e pesticidi, specialmente nelle regioni di Los Lagos e Aysén, dove è prevalente l’allevamento di questa specie. Tali pratiche non solo alterano l’ecosistema, ma possono anche portare a resistenza agli antibiotici, un problema che preoccupa molto la comunità scientifica.

La questione è particolarmente rilevante per i nordamericani in quanto il 48,9% del salmone d’allevamento venduto sul mercato statunitense proviene proprio dal Cile (si tratta tra l’altro del secondo pesce più consumato dopo i gamberetti).

Purtroppo però, ben il 64,8% di questo prodotto è classificato come “ad alto rischio ambientale”, secondo il Seafood Watch del Monterey Bay Aquarium, che classifica il salmone come ad alto rischio se è sovrasfruttato o proviene da allevamenti che utilizzano troppe sostanze chimiche per controllare malattie e parassiti o se hanno alti tassi di fuga nella natura.

Secondo quanto riportato dal quotidiano statunitense, le nuove tendenze di consumo spingono gli acquirenti a prendere decisioni migliori quando devono portare in tavola un prodotto, pensando sia al proprio benessere personale che all’ambiente. Il fatto è che le etichette dei prodotti spesso creano confusione o non forniscono chiaramente le informazioni richieste.

Invece, l’origine del pesce è ovviamente uno dei dati più importanti per misurare la sua “sostenibilità” (per quanto sia possibile parlare di sostenibilità), poiché le pratiche e le normative sulla pesca possono variare a seconda del Paese di origine.

In termini percentuali, il salmone cileno è classificato per il 64,8% ad alto rischio ambientale e il 35,2% a rischio da basso a moderato, subito dopo la Norvegia, che guida la classifica con il 65,8% ad alto rischio ambientale e il 34,2% a rischio da basso a moderato.

Sebbene la maggior parte del salmone selvatico che arriva negli Stati Uniti provenga dall’Alaska, come già detto, la maggior parte del pesce che proviene dagli allevamenti ittici arriva dal Cile (48,9%) seguito da Norvegia (14,6%) e Canada (14,5%). Il problema è che tutto questo pesce andrebbe evitato, in quanto per la gran parte classificato “ad alto rischio ambientale” (dunque non è un problema solo del salmone cileno, ma noi già lo sapevamo).

Se proprio dobbiamo consumare salmone, è preferibile sempre scegliere quello selvatico, pescato nei luoghi in cui è originario e dove esistono limiti di pesca.

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Fonte: The Washington Post

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