Brandy Melville nella bufera, il marchio amato dalla Gen Z è accusato di spingere le ragazze verso disturbi alimentari

Attraverso una presenza massiccia sui social media e modelli d'estetica (irraggiungibile) standardizzati, Brandy Melville è diventato il marchio di abbigliamento “indispensabile” per le adolescenti di tutto il mondo. Dietro le quinte, tuttavia, ci sono un ambiente di lavoro tossico e metodi di reclutamento discriminatori

Ragazze incredibilmente magre, possibilmente bianche e dall’estetica americana: molte ex dipendenti di Bransy Malville, uno dei marchi preferiti della generazione Z, raccontano la discriminazione razziale e di taglia e le violenze psicologiche che ci sono dietro.

Non solo Zara, H&M e simili: sfruttamento e scarsa qualità degli abiti, tutto ciò che riguarda – insomma – il “grande classico” della fast fashion, pare interessare anche il marchio nato nel 2009 da un’idea di un italiano e oggi tanto amato dalle ragazzine.

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Conosciuto, infatti, dalla Gen Z perché vende minuscoli capi a taglia unica (pantaloncini corti di lino, canottiere con stampa di cuori e felpe stampate con la parola “Malibu”), dietro a quella imposizione di estetica da ragazza californiana si cela in realtà un’operazione oscura che sfrutta e trae profitto dall’insicurezza femminile.

È quanto emerge da “Brandy Hellville & the Cult of Fast Fashion”, un documentario della pluripremiata regista Eva Orner, che accusa Brandy Malville di aver creato un ambiente che “coltiva disturbi alimentari e problemi di autostima“.

Il documentario alterna i resoconti di ex dipendenti sul razzismo e sulla discriminazione in base al proprio corpo mentre lavorao nei negozi con uno sguardo più ampio sui costi del lavoro e ambientali del settore della fast fashion.

Il modello di business dell’azienda è oscuro

Per alcuni aspetti, Brandy Melville è simile a Zara, H&M e altri rivenditori che operano nel settore del fast fashion, che privilegia l’abbigliamento a basso costo prodotto secondo cicli di tendenza rapidi. Ma la sua struttura aziendale è insolitamente “caotica, disordinata e poco chiara”, spiga Orner.

Ogni negozio Brandy Melville è di proprietà di una diversa società di copertura, mentre il marchio di Brandy Melville è di proprietà di una società svizzera, spiega nel film Kate Taylor, autrice di un’indagine di Business Insider del 2021 sulla società.

Inoltre, la catena di fornitura dell’azienda è opaca, ma gran parte dei suoi capi di abbigliamento sono prodotti in una fabbrica a Prato che impiega immigrati cinesi. Il modello di business di Brandy Melville prevede la produzione di articoli poco costosi e alla moda che probabilmente verranno scartati al pari dei più noti marchi di fast fashion.

La politica della “taglia unica”

L’azienda offre la maggior parte dei suoi capi di abbigliamento in una sola taglia molto piccola, che descrive come “taglia unica”. Secondo gli ex dirigenti intervistati nel documentario, l’azienda mira in questo modo a mantenere il marchio esclusivo e il docufilm include anche post sui social media di clienti che affermano di aver perso peso per adattarsi agli abiti del marchio. Diversi ex dipendenti hanno descritto di aver lottato con disturbi alimentari mentre lavoravano a Brandy Melville, e molti hanno affermato che la pressione di essere magri mentre lavoravano ha influenzato la loro autostima.

brandy malville

L’azienda, inoltre, avrebbe sempre assunto donne bianche e magre e alcune hanno anche raccontato di essere costrette a scattare quotidianamente foto di tutto il corpo che venivano inviate a Stephan Marsan, amministratore delegato e figlio del fondatore dell’azienda Silvio, che era anche pronto a licenziare se non gli piaceva il loro aspetto.

Secondo tre ex dipendenti, infine, i dipendenti bianchi avevano maggiori probabilità di essere assegnati al reparto vendite, mentre le persone nere venivano collocate in ruoli meno visibili nel magazzino (di fatto, ex dirigenti di Brandy Melville hanno intentato due cause legali contenenti “gravi accuse di razzismo” che sono state negate dalla società nei documenti depositati in tribunale preliminare).

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