Un nuovo studio condotto sulle vendite di 20 multinazionali del settore alimentare conferma ciò che già sapevamo: un alta percentuale di questi prodotti (l'89%) è non salutare. In alcuni casi, poi si arriva addirittura al 100% di prodotti insalubri
L’importanza di una sana alimentazione per la salute è ormai innegabile e tanti studi l’hanno confermato nel corso degli anni. Nonostante siano rimasti solo sette anni per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite che mirano a porre fine all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione in tutte le sue forme, la situazione alimentare a livello globale non è certo rosea.
Attualmente, 200 milioni di bambini sotto i cinque anni sono ancora colpiti da arresto della crescita o deperimento, al contrario circa 39 milioni di essi sono in sovrappeso.
Ma che ruolo hanno in questo contesto le grandi multinazionali del settore alimentare? Il panorama globale è dominato da produttori, rivenditori e aziende multinazionali note in tutto il mondo e, anche se molte di queste aziende hanno adottato (almeno in teoria) iniziative socialmente responsabili, come l’impegno a non commercializzare prodotti ad alto contenuto di grassi, zucchero e sale destinati ai bambini, la situazione è ancora ben lontana dall’essere idilliaca.
Un nuovo studio, finanziato dall’UNICEF e dall’Applied Research Collaboration (ARC) del National Institute for Health Research (NIHR) Oxford e Thames Valley, conferma ancora una volta quello che già sapevamo: ciò che vendono le lobby alimentari sono per la maggioranza cibi e bevande malsane (per la precisione la nuova ricerca parla dell’89% delle loro referenze considerate appunto insalubri).
L’analisi ha preso in esame 35.550 prodotti di 1.294 marchi appartenenti alle 20 principali aziende alimentari e delle bevande globali, provenienti da sette Paesi diversi (Australia, Brasile, Cina, India, Sud Africa, Regno Unito e Stati Uniti, selezionati perché rappresentano un mercato leader in ciascuna regione geografica del mondo). I prodotti della varie marche sono stati suddivisi in “più sani” e “non salutari” in base ai criteri dell’OMS.
Analizzando i dati relativi alle vendite dei vari marchi nel 2020, è stato possibile individuare la percentuale di prodotti classificati come malsani e di prodotti invece più sani per ogni azienda e categoria. Alla fine, in media, l’89% delle vendite è stato classificato come non salutare. Per ogni 10 dollari spesi su tali marchi, appena 1,10 dollari sono stati destinati a prodotti considerati più salutari.
Questi dati evidenziano dunque che la maggior parte delle vendite di tali aziende deriva da cibi come dolciumi, snack e bevande analcoliche ricche di zuccheri. Nello studio si legge che:
Tutti i prodotti Red Bull e Ferrero sono stati classificati come non salutari, mentre il 95% delle vendite proveniva da prodotti non salutari per cinque società: Mondelēz, PepsiCo, Suntory, Mars e Keurig Dr Pepper, i cui portafogli e vendite sono dominati da dolciumi, biscotti e torte, e bevande analcoliche. Il Grupo Bimbo è stata l’azienda con la percentuale più alta di vendite derivanti da prodotti più sani, con il 48%, seguita da Danone (34%) e Conagra (33%) (Fig. 3 ).
È abbastanza impressionante pensare che la Ferrero venda addirittura il 100% di prodotti considerati malsani.
Lo studio mette ancora una volta in luce la stretta relazione che c’è tra le multinazionali e l’aumento delle malattie legate all’alimentazione su scala globale, il contributo di queste lobby ai problemi dell’obesità e del diabete non sono da sottovalutare.
Nelle loro conclusioni i ricercatori scrivono:
Questo studio fornisce un metodo obiettivo e trasparente per valutare il profilo di rischio nutrizionale delle aziende alimentari e delle bevande. Dimostra che le più grandi aziende mondiali del settore dipendono fortemente dalle entrate derivanti dalla vendita di prodotti non salutari. Queste informazioni possono essere preziose per le organizzazioni che desiderano valutare il rischio quando prendono in considerazione le partnership. Può essere utilizzato anche dalle organizzazioni sanitarie pubbliche per attività di patrocinio o per monitorare e riferire sugli impegni aziendali volti a muoversi verso pratiche aziendali più sane.
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Fonte: Globalization and Health
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