Le proteste dei lavoratori e delle lavoratrici del Bangladesh, il secondo produttore al mondo di abbigliamento dopo la Cina, per avere salari più alti non hanno avuto i risultati sperati. Dal 2011 al 2019 le esportazioni del settore sono più che raddoppiate, ma le persone che impiega sono ancora tra le più povere del Paese e le loro condizioni di lavoro continuano a essere tra le peggiori al mondo
Per settimane, migliaia di lavoratori tessili del Bangladesh hanno protestato per aumenti salariali più elevati rispetto ai 113 dollari proposti dal Governo (un salario ben lontano dal salario dignitoso), chiedendo 208 dollari al mese al posto dei loro 75 dollari mensili. Ma il pesce puzza dalla testa e, se non si cambia qualcosa ai vertici delle stesse fabbriche, poco o nulla conquisteranno mai i lavoratori e le lavoratrici bengalesi.
Per settimane si sono scontrati con la polizia e alcuni di loro hanno anche trovato la morte in scontri in piazza violenti e sanguinosi per poi arrivare, a inizio novembre, all’annuncio del Governo del suo esiguo aumento che entrerà in vigore il 1° dicembre).
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Un aumento assai misero, gridano i lavoratori e le lavoratrici, i cui salari non sono ancora al passo con l’inflazione negli ultimi cinque anni. Secondo l’Ufficio di statistica del Bangladesh, infatti, l’inflazione è salita al 9% tra il 2022 e il 2023, il tasso medio più alto degli ultimi 12 anni.
I lavoratori dell’industria tessile in Bangladesh attualmente guadagnano meno di 100 dollari al mese producendo abiti per grandi marchi come H&M, Zara e Levi’s. Non va bene per niente se si pensa che il Bangladesh Institute of Labour Studies, un gruppo di ricerca locale, ha stimato che il minimo mensile per un salario di sussistenza debba aggirarsi attorno ai 33.368 taka – 302 dollari -, mentre la stima dell’Asia Floor Wage Alliance, una rete di sindacati locali e organizzazioni sindacali, sarebbe di 51mila taka – 462 dollari.
Che ruolo hanno davvero i grandi marchi della fast fashion?
Le controversie salariali violente e così lunghe nel tempo sono comuni nell’industria globale dell’abbigliamento. Il motivo è presto detto: eventuali aumenti salariali incidono sui costi dei fornitori e vanno a intaccare i loro margini di profitto, tanto che molti fornitori di abbigliamento si uniscono per utilizzare i sistemi nazionali di fissazione dei salari.
Ma sono anche i marchi stessi a determinare salari bassi e a fare in modo che i fornitori non applichino aumenti salariali, attestandosi su prezzi sostanzialmente ingiusti e altre pratiche illegali di acquisto. Per preservare i propri profitti, in buona sostanza, molti marchi esercitano pressioni sui fornitori affinché mantengano bassi i costi.
E per i fornitori, denunciare e rettificare le pratiche di prezzo e di acquisto sleali dei marchi in tribunale o in altro modo è molto più difficile che cercare di frenare la crescita dei salari dei lavoratori a livello nazionale.
Uno studio di Mark Anner, direttore del Center for Global Workers’ Rights, pubblicato nel 2019, ha documentato la stretta sugli approvvigionamenti che i marchi impongono ai fornitori in Bangladesh e come questa stretta porti alle violazioni dei diritti dei lavoratori. In uno studio del gennaio 2023 condotto dall’Università di Aberdeen, metà dei 1.000 fornitori del Bangladesh intervistati ha affermato di aver subito almeno una pratica di acquisto sleale.
Subito dopo la riapertura delle fabbriche dopo il lockdown dovuto al Covid-19, circa un quarto degli intervistati ha riferito di aver subito pressioni da parte dei marchi per ridurre ulteriormente i prezzi, vendendo al di sotto dei costi di produzione.
Questa pressione non riguarda solo il Bangladesh. Uno studio condotto sempre da Anner in India ha dimostrato che molti marchi abbassano i prezzi o si rifiutano di tenere conto dell’aumento del costo del lavoro se i salari aumentano, alimentando la resistenza dei fornitori a pagare di più i lavoratori, mentre un’indagine comparativa condotta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha mostrato che i marchi internazionali impongono pressioni sui prezzi scoraggianti sui produttori dell’industria dell’abbigliamento.
Secondo Human Rights Watch, i fornitori in tutta l’Asia avrebbero affermato di avvertire un’intensa pressione sui prezzi e che i bassi prezzi di acquisto e altre pratiche di acquisto sleali portano le fabbriche ad adottare a loro volta altre pratiche inadeguate per ridurre i costi, come assumere lavoratori con salario giornaliero o tramite appaltatori per ridurre l’entità dei benefici e i loro contributi ai sistemi di sicurezza sociale.
Cosa fare allora? I marchi che sostengono di preoccuparsi dell’approvvigionamento etico dovrebbero seriamente essere disposti a pagare di più, aumentare i prezzi pagati ai fornitori e rivedere i loro contratti per essere equi nei confronti dei fornitori. Ciò creerebbe significativamente un ambiente molto più favorevole all’approvvigionamento responsabile rispetto al semplice affidamento sui loro codici di condottasu audit sociali imperfetti che non affrontano queste questioni fondamentali o su altre retoriche sull’essere responsabili.
Intanto, secondo quanto rivelato da Bloomberg , H&M si sarebbe impegnata a compensare l’aumento dei salari dei lavoratori in Bangladesh aumentando i prezzi pagati ai fornitori per l’abbigliamento prodotto nel Paese. Solito greenwashing? Molto probabile.
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