Anche l’antimateria sente la forza di gravità, come prevedeva la Teoria della Relatività di Albert Einstein: un gruppo di ricerca dell’Università di Manchester (Regno Unito) lo ha dimostrato per la prima volta nella storia
Cade la mela di Newton? Certo, ma anche l’”antimela”: un gruppo di ricerca guidato dall’Università di Manchester (Regno Unito) ha dimostrato per la prima volta che anche l’antimateria sente la forza di gravità, come prevedeva la Teoria della Relatività di Albert Einstein, che quindi aveva ragione anche su questo.
Gli scienziati hanno realizzato un esperimento nel quale gli atomi di antiidrogeno – una forma di antimateria – cadono sulla Terra nello stesso modo come tutta la materia che conosciamo, ovvero tutto ciò che occupa spazio, ha una massa e che può essere sotto forma di liquido, solido o gas.
L’antimateria è come se fosse l’”opposto” della materia, costituita da particelle che hanno carica elettrica opposta. Quindi, per esempio, se la materia ha elettroni, l’antimateria ha positroni (antielettroni).
Sebbene la materia sia ovunque, il suo opposto è ora incredibilmente difficile da trovare, anche se entrambe sono state create in egual misura ai primordi nostro Universo. E questo risultato spinge gli scienziati un passo avanti verso la soluzione del mistero dell’antimateria.
La teoria generale della relatività di Einstein, da lui introdotta oltre un secolo fa, descrive come funziona la gravità – spiega William Bertsche, che ha collaborato alla ricerca – Fino ad ora non eravamo del tutto sicuri che questa teoria fosse applicabile all’antimateria. Questo esperimento dimostra di sì, nei limiti di certezza dei risultati, e conferma una delle teorie scientifiche più celebrate di tutti i tempi
Cosa cambia ora?
Come molte scoperte scientifiche della così detta “ricerca di base”, anche questa sembra più una curiosità che altro, ma non è affatto così.
Comprendere come la gravità influisce sull’antimateria è cruciale sia per comprendere i misteri che circondano sia l’antimateria che la gravità stessa – continua infatti lo scienziato – L’origine della dominanza osservata della materia sull’antimateria nell’Universo rimane una sfida irrisolta per le teorie esistenti, che miriamo a comprendere attraverso un’attenta osservazione del comportamento dell’antimateria rispetto alla materia. Da parte sua, la gravità rimane non unificata con altre teorie, come la meccanica quantistica, e quindi avere una tavolozza di osservazioni più ampia aiuterà a comprenderla ulteriormente
La scoperta è quindi davvero una pietra miliare nello studio dell’antimateria, che ancora confonde la comunità scientifica a causa della sua apparente assenza nell’Universo. E che però è stata ed è parte integrante della sua nascita e della sua stessa esistenza.
L’esperimento clou è arrivato a seguito di un precedente condotto nel 2013 con la configurazione ALPHA originale: oggi il team ha intrappolato gruppi di circa 100 atomi di antiidrogeno, un gruppo alla volta, e poi ha rilasciato lentamente gli atomi per un periodo di 20 secondi.
Le simulazioni al computer del sistema ALPHA-g indicano che questa operazione, per quanto riguarda la materia, comporterebbe l’uscita di circa il 20% degli atomi dalla parte superiore della trappola e l’80% dal fondo, una differenza causata dalla forza di gravità verso il basso. Facendo la media dei risultati di sette prove di rilascio, il team ha scoperto che le frazioni di antiatomi che escono dalla parte superiore e inferiore sono in accordo con le aspettative delle simulazioni.
Ci sono voluti 30 anni per imparare come creare questo antiatomo racconta Jeffrey Hangst, un altro coautore – come trattenerlo e come controllarlo abbastanza bene da poterlo far cadere in modo che fosse sensibile alla forza di gravità
Il prossimo passo sarà misurare l’accelerazione nel modo più preciso possibile, spiegano i ricercatori, che intendono verificare se materia e antimateria cadono davvero nello stesso modo.
Si prevede che il raffreddamento laser degli atomi di antiidrogeno, che abbiamo dimostrato per la prima volta in ALPHA-2 e che implementeremo in ALPHA-g quando torneremo ad utilizzarlo nel 2024, avrà un impatto significativo sulla precisione
Il lavoro è stato pubblicato su Nature.
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Fonti: Università di Manchester / Nature
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