In occasione della Giornata nazionale della Salute della Donna, che si celebra come ogni anno il 22 aprile, facciamo un tentativo: proviamo a cambiare la narrazione dei fatti e a contare fino a dieci prima di fare la più inopportuna delle affermazioni
“Prenditi una camomilla”, “non ci pensare”, “è tutto nella tua testa”. Il dolore, che per sua stessa definizione rimane invisibile agli altri, non ha – se ci fate caso – ragione d’esistere. O almeno non per una donna e non per la maggior parte delle persone che ruotano intorno a lei e, che, a un’altra richiesta di aiuto, replicano con un… “ma che vuoi che sia?”.
Vorrei che mi ascoltassi, che ti appoggiassi qui accanto a me in silenzio: sentirai il mio corpo che urla, le mie viscere che chiedono pietà, perché non sempre quello che non si vede non esiste. Non sempre riesco a dirti quello che ho dentro, o forse non poni l’orecchio, di quegli spasimi che salgono su dritto, dal ventre, e invadono il petto, la gola, la testa. Una patologia cronica, una terapia dopo un tumore, è come qualcosa che sale in superficie senza riuscire poi a sfociare in un grido, verso una mano che prenda la mia e mi accompagni senza fare domande.
O le faccia, le domande, ma quelle giuste: “come stai?”, “hai bisogno di qualcosa?”.
Il motivo? Ancora oggi è come se, in presenza di una malattia cronica e invalidante o di una terapia che richiede rigore e altrettanto dolore, fossero le donne le patetiche alla ricerca di un appiglio. Ma è un gancio diverso quello di cui abbiamo bisogno, a partire da uno specialista che capisca e fornisca una diagnosi certa, definitiva e in tempi rapidi, a finire con chi ci sta accanto, che troppo spesso si riempie la bocca di inaccettabili luoghi comuni.
Non è la soglia del dolore che è troppo bassa, è il dolore che è troppo alto. È la rabbia, la frustrazione, è il rimanere basite e di stucco davanti a quegli atteggiamenti di svalutazione di una patologia anche in ambito medico. Proprio quello che non deve succedere, perché tutto ciò è capace di generare un circolo vizioso.
Perché? Fondamentalmente quel dolore appartiene solo a te, sono problemi tuoi, è solo nella tua testa. Rilassati. E il circolo vizioso si innesca, generando un paradosso: non posso dire nulla del mio dolore, trovo solo e soltanto ulteriore demoralizzazione.
Eppure avere una malattia cronica non è pigrizia, non è avere la “scusa” per esagerare sui sintomi, non è invenzione della propria mente. È che “cronico” significa che non passa solo una semplice camomilla e una buona dormita. Proprio no.
I luoghi comuni
Non solo tra le quattro mura domestiche, avere una malattia cronica e, soprattutto arrivare alla sua diagnosi, è un battagliare continuo anche con lo stesso personale medico. Si chiama medical gaslighting, riprendendo la parola gaslighting – una forma di manipolazione psicologica con cui vengono date alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione – e portandola in ambito medico.
Si tratta di quel tipo di dinamica che si verifica soprattutto nei confronti delle donne (o persone AFAB, a cui è cioè assegnato il sesso femminile alla nascita) alle quali, dopo anni di sofferenze e incertezze, vengono diagnosticate patologie come endometriosi, vulvodinia o fibromalgia. Una dinamica in cui frasi stereotipate non hanno mai fine, tipo:
- Prenditi una tisana
- Quanta esagerazione e che ansia!
- Sei drammatica
- Ma è tutto nella tua tesa
- Sei ipocondriaca
- Hai la soglia del dolore bassa
- Ti ci devi abituare
- Addirittura non vai a lavoro…
- Cosa vuoi che sia
- Non pensarci, vedrai che ti passa
- Sei sotto stress
- Trovati un fidanzato
A cosa serve tutto ciò? Che senso hanno queste frasi? Proprio nessuno, non danno alcun tipo di aiuto. Molte volte passano inosservate, ma molte altre si sommano, una sopra all’altra, creano un meccanismo feroce di paturnie e sensi di colpa, generano angosce che arrivano alla fatidica domanda: “ma allora sono io?“.
No, non sono io. È il mondo dei non empatici che, ancora, non sono capaci di ascoltarmi.
Me ne faccio corazza e vado avanti. Ma quanta fatica.
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