Ti spiego da dove provenivano i bambini e gli altri migranti morti davanti alla spiaggia di Cutro (ed è più importante di quanto credi)

“Io non partirei se fossi disperato, perché sono stato educato a chiedermi cosa posso fare per il Paese in cui vivo”. Lo dice Piantedosi, il nostro ministro dell’Interno, poche ore dopo la strage nel mare di Crotone dove hanno perso la vita oltre 60 migranti e altre decine di persone sono ancora disperse. Occhi accigliati e dita puntate, non si sa bene verso chi, verso cosa, ha snocciolato parole alquanto superficiali, dimostrando che – in fondo in fondo – siamo ancora ben lontani da voler capire e far capire che queste sono molto di più che semplici migrazioni

Il cadavere di una bimba ha sul braccio un numero, mentre poco più in là giace sulla sabbia un pigiamino rosa e bianco con le orecchie sul cappuccio e uno zaino semiaperto conserva cianfrusaglie imbottite d’acqua. Un sopravvissuto urla invano il nome di chi era con lui, gli occhi smarriti di chi è ancora incredulo.

Tutto ciò come mai è possibile? Da dove mai provenivano quei migranti morti in mare? Davvero non avevano nulla di meglio da fare che mettersi su una barchetta di legno in mezzo alle onde?

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Afghanistan, dove sono tornati di gran carriera i talebani, Siria, piegata in due da una guerra da più di 10 anni, Pakistan, in ginocchio dopo alluvioni catastrofiche, e poi Iran, Somalia, Palestina. Al “non credo che si possa sostenere che al primo posto venga il diritto e il dovere di partire, e di partire in questo modo” di Matteo Piantedosi delle ultime ore si contrappone l’urgenza netta di comprendere come davvero stanno le cose.

E no, lor signori: non avevano nulla di meglio fare e, se proprio non volete ascoltare le parole, ve lo dicono i loro gesti o i vestiti strappati di quella signora afghana che ha perso il marito durante il naufragio. Afghana, proprio così. Non vi viene nulla in mente? L’Afghanistan è uno dei tanti Paesi in cui, volenti o nolenti, è impossibile vivere.

Afghanistan, come Siria, come Palestina: quel “Io non partirei se fossi disperato” stona, stride, accende polemica. Non si può sentire.

E vi spieghiamo perché, seguendo i dati raccolti da Sergio Ferraris.

Afghanistan

È sotto ai talebani ancora, praticamente dopo 20 anni di un conflitto che ha causato 35mila morti. Sono loro i responsabili di sparizioni forzate, arresti arbitrari, uccisioni extragiudiziali, vendette mortali e, soprattutto, di attacchi mirati contro minoranze religiose ed etniche come gli hazara e contro le donne.

A oltre 850mila bambine delle classi oltre il sesto grado viene negato il diritto all’istruzione. Musicisti, artisti ed esponenti di movimenti culturali sono in pericolo se non in carcere. Le donne che scendono in piazza per protestare contro la soppressione dei loro diritti vengono picchiate e arrestate e lo stesso accade ai giornalisti che riprendono le loro manifestazioni.

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Pakistan

Qui, a settembre del 2022 33milioni di persone sono state colpite da catastrofiche alluvioni e siamo arrivati a circa 8 milioni di profughi interni. Dal Pakistan l’anno scorso ci sono infatti arrivate immagini apocalittiche, messo in ginocchio dalle violente inondazioni causate dalle piogge monsoniche.

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Siria

La nostra Siria. Il Paese è in guerra da almeno 10 anni ha avuto 430mila morti e sono 1.200 le vittime di stupri, spesso minorenni.

Secondo Amnesty, il governo di Damasco ha reso sempre più difficile l’arrivo degli aiuti umanitari nelle aree che non erano sotto il suo controllo.

Nel 2014 è stato istituito un meccanismo delle Nazioni Unite per far pervenire aiuti ai 4milioni di siriani (per lo più sfollati interni) che risiedono nella zona controllata dai ribelli. Questo meccanismo che consentiva l’arrivo di acqua, cibo, beni di prima necessità è stato rinnovato il 9 gennaio 2023 per altri sei mesi e solo per uno dei quattro corridoi iniziali. Ne è rimasto aperto solo uno solo, quello di Bab-al Hawa.

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Iran

La polizia ha ucciso quasi 600 i manifestanti, mentre si contano 15mila gli arresti e 110 persone rischiano la pena di morte. Dal 16 settembre 2022, migliaia di donne e uomini sfidano la ferocia della repressione nelle strade, nelle scuole e nelle università. Fin dalle prime ore, l’ordine dall’alto è stato chiaro: nessuna pietà per chi manifesta e si susseguono i processi farsa, le torture, le esecuzioni e gli arresti.

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Somalia

Paese in guerra da 32 anni cui si aggiunge la scure della siccità: le comunità agricole e gli sfollati in tre aree della regione di Bay, nel sud-ovest della Somalia, infatti, compresi i distretti di Baidoa e Burhakaba, sono in piena carestia, senza che un’assistenza umanitaria significativa raggiunga i più bisognosi, mentre il Paese sta affrontando la peggiore siccità degli ultimi 40 anni.

Dall’inizio del 2021, la siccità ha costretto circa 260mila persone nella Bay Region ad abbandonare le loro fattorie e a trasferirsi campi sfollati in cerca di cibo e aiuti.

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Palestina

La guerra qui dura da tre quarti di secolo e ancora, secondo i dati Amnesty, nel 2022 le forze israeliane hanno intensificato le azioni militari in Cisgiordania, compiendo centinaia di raid e imponendo nuove chiusure che hanno ulteriormente limitato il movimento dei palestinesi. Secondo le Nazioni Unite, il 2022 è stato il peggiore anno dal 2005 per il numero di palestinesi uccisi da parte delle forze israeliane: 127 finora, tra cui molti bambini.

Intanto, allo stato attuale:

  • la Procura di Crotone ha aperto un’inchiesta per omicidio e disastro colposi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
  • pochi giorni fa, la Camera ha approvato una normativa più severa per le organizzazioni che soccorrono i migranti in mare, che potrebbero rischiare multe o il sequestro delle loro navi se non rispettano le regole
  • il 23 febbraio, la nave di soccorso di Medici senza frontiere, la Geo Barents, è stata sequestrata per 20 giorni e le è stata comminata una multa di 10 mila euro
  • nel processo contro l’equipaggio della nave di soccorso “Iuventa”, il tribunale di Trapani ha respinto la richiesta di costituzione come parte civile avanzata dalla presidenza del Consiglio finalizzata a richiedere il risarcimento dei costi che, secondo il governo Meloni, sarebbero stati causati dalle Ong impegnate in azioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo

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