Il rischio che l’Amazzonia possa diventare una savana erbosa produrrebbe effetti sul clima dell’intero pianeta e ciò sarebbe catastrofico per le decine di migliaia di specie che vi abitano
È ormai notizia che ci stiamo trascinando da anni, almeno da quando era già scientificamente chiaro che l’Amazzonia si trovi effettivamente a un punto di non ritorno. Disquisizioni sul tema tornano poi ciclicamente, a dimostrazione del fatto che ancora non si è fatto tutto il possibile per evitare la catastrofe.
E così, in un ultimo editoriale del New York Times ci si chiede nuovamente a caratteri cubitali: l’Amazzonia ha raggiunto il suo “punto critico”? Se, di fatti, il cosiddetto “polmone della Terra” in grado di assorbire circa mezzo miliardo di tonnellate l’anno di CO2 è a quel punto di non ritorno, la questione – dicono gli esperti – è che “queste stime sono sempre dipese da una serie di estrapolazioni”.
Alcuni ricercatori utilizzano i satelliti per rilevare i cambiamenti che indicano la presenza di gas serra ma il punto è che è difficile sapere quanto siano rappresentative le piccole aree di studio, “perché l’Amazzonia è grande quasi quanto gli Stati Uniti, con differenze regionali in termini di precipitazioni, temperatura, flora ed estensione del disboscamento e dell’agricoltura”, si legge sul Times.
Luciana Vanni Gatti, chimica dell’atmosfera, dal suo laboratorio presso l’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale del Brasile (Inpe) ha perfezionato una metodologia che puntava a sapere quanto carbonio stesse perdendo la foresta pluviale e quanto fossero rappresentativi questi risultati.
Il punto centrale del suo progetto era che, catturando l’aria da altitudini assai elevate, poteva ottenere un quadro empirico e completo del carbonio dell’Amazzonia.
Così, la Gatti è riuscita ad elaborare sette modi diversi per calcolare l’effetto dei flussi di vento e la composizione dell’aria sull’Oceano Atlantico, riuscendo a fotografare ciò che stava accadendo nell’80% della foresta.
Il fatto è che quando la chimica dell’atmosfera ha pubblicato l’esito delle sue ricerche su Nature nel 2021 ha sollevato il panico in tutto il mondo perché si è temuto che il “sistema polmonare” della Terra stesse emettendo gas serra in quantità superiore.
Il motivo è che gli alberi in fiamme – continua a spiegare il Times – rilasciano un’alta percentuale di emissioni di monossido di carbonio che la dottoressa Gatti è riuscita però a separare dal totale, tant’è che nell’Amazzonia sud-orientale i campioni d’aria raccolti mostravano ancora emissioni decise, suggerendo che l’ecosistema stesso potrebbe rilasciare più carbonio di quanto ne ha assorbito, grazie in parte alla materia vegetale in decomposizione.
Negli anni ’70, il ricercatore brasiliano Eneas Salati riuscì a dimostrare che anche l’Amazzonia, con i suoi circa 400 miliardi di alberi, crea il proprio clima, clima che però ora gli scienziati temono sia in grossa crisi, dal momento che solo nell’ultimo mezzo secolo, il 17% della foresta amazzonica – un’area più grande del Texas – è stato convertito in terre coltivate o pascoli per il bestiame.
Meno foresta significa meno pioggia riciclata, meno vapore per rinfrescare l’aria, meno tettoia per schermare dalla luce del sole. In condizioni più secche e più calde, anche il più rigoglioso degli alberi amazzonici perderà foglie per risparmiare acqua, inibendo la fotosintesi, un ciclo di feedback che è solo esacerbato dal riscaldamento globale.
Infine, concludono gli scienziati, se la deforestazione continua, i fiumi si indeboliranno abbastanza da impedire alla foresta pluviale di sopravvivere nella maggior parte del bacino amazzonico e si trasformerà in una savana forse nel giro di decenni.
Perdere l’Amazzonia, uno degli ecosistemi più ricchi di biodiversità sulla Terra, sarebbe catastrofico per le decine di migliaia di specie che vi abitano. L’aumento delle temperature potrebbe anche spingere milioni di persone nella regione a diventare rifugiati climatici.
Ciò di cui gli scienziati sono più preoccupati sono gli effetti a catena sul clima globale.
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Fonte: NYT
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