Il termine è uno di quei sincretismi moderni che lasciano l'orecchio interdetto. Deriva dall'unione di locale e onnivoro. L'enciclopedia Treccani lo annovera sotto la casella neologismo. Sta nella stessa categoria di vegetariano, vegano, carnivoro. Identifica colui che mangia solo prodotti coltivati nel raggio di qualche centinaia di kilometri. Ennesima etichetta o direzione possibile?
Locavoro. Il termine è uno di quei sincretismi moderni che lasciano l’orecchio interdetto. Deriva dall’unione di locale e onnivoro. L’enciclopedia Treccani lo annovera sotto la casella neologismo. Sta nella stessa categoria di vegetariano, vegano, carnivoro. Identifica colui che mangia solo prodotti coltivati nel raggio di qualche centinaia di kilometri. Ennesima etichetta o direzione possibile?
Nel frattempo indaghiamo il fenomeno, che nel nostro Paese, bisogna dirlo, non ha attecchito come altrove. Complice forse il fatto che proprio la varietà di prodotti regionali che contraddistingue il territorio italiano è la base di quell’ identità culinaria multi sfaccettata che tutto il mondo ci invidia. E di cui gli italiani si fanno portavoce.
Più facile dunque che la tendenza nascesse in territori dove il prodotto locale non ha mai contribuito a costruire la cittadinanza. Dove al contrario, fin dall’inizio è stato il mondo intero a entrare nei supermercati, carico dei suoi frutti omogeneizzati dalla grande industria e privi di sapore tipico.
Nel 2005 una coppia di canadesi, Alisa Smith and J.B. MacKinnon, decide di intraprendere la sfida di mangiare solo prodotti i cui ingredienti provenissero da campi collocati entro un raggio di 100 miglia (equivalente di 160 kilometri). Aprirono un blog sul giornale locale nel quale raccontavano le meraviglie del pesce appena pescato, del pollo, dei vegetali, dei frutti di bosco e del mais. Di come avevano imparato a conservare il cibo per l’inverno e di come erano riusciti a sopravvivere senza caffè e zucchero.
Ne nacque un libro The 100-Mile Diet: A Year of Local Eating (or Plenty: One Man, One Woman, and a Raucous Year of Eating Locally) che presto divenne una trasmissione televisiva per il canale satellitare Food Network.
100 Mile Challenge ha cominciato ad andare in onda nel 2009 portando sullo schermo le vicissitudini di sei famiglie disposte a rinunciare a birra, cioccolata e arance per cento giorni. La trasmissione fa parlare di sé e ne vengono ceduti i diritti ad altre tv. Più che una filosofia di consumo assomiglia a un business. Discovery Channel mette alla prova sei famiglie della British Columbia e il fenomeno arriva prima sui media e poi nei restaurant di Manhattan.
In Europa sembra trovare eco più sugli schermi televisivi che tra la gente. Mai sentito qualcuno definirsi in modo disinvolto “per me niente caffè… sono locavoro“.
Nel 2012, France 5 realizza la versione transalpina del format e lo chiama 200 km à la ronde allargando il raggio di provenienza del cibo. Per 30 giorni, cinque famiglie della città di Tolosa iniziano questa avventura sotto i riflettori della tv. Basta con il burro della Normandia, la frutta secca dei Caraibi, le banane e il prosciutto di Parma. L’obiettivo della produttrice è quello di dimostrare come vivere applicando questo modus operandi non è poi così difficile e che per di più garantisce legami sociali che altrimenti non si potrebbero verificare.
Definirsi locavori sarebbe un po’ come dire di essere onnivori senza criterio. Ecco, il criterio è ciò che fa la differenza tra un onnivoro che sceglie di fare attenzione alla propria spesa e un locavoro che si affida al kilometraggio che lo separa dal cibo che compra. Il criterio è anche quello che contraddistingue le milioni di persone che frequentano i Farmers market in giro per le città e contemporaneamente si contraddice con un caffè al bar.
Il mito del consumo locale, specie se letto in ottica ambientalista si sgretola facilmente di fronte alle distinzioni che si devono fare tra un chilo di fragole portate al mercato da un camion che ha fatto cento kilometri e un chilo di fragole trasportate in treno per cinquecento chilometri.
Come non è secondaria l’importanza del commercio tra regioni distanti in funzione di uno scambio di prodotti locali tipici e quindi di un’alimentazione varia. Una regione collocata nel Mediterraneo consuma meno risorse per produrre arance rispetto a una del nord e ha diritto e dovere di esportare il proprio prodotto e ricevere ciò che il proprio terreno avrebbe difficoltà a produrre se non con dispendio di energie.
L’uovo in questo caso nasce prima della gallina. Un impegno a restituire alle varie latitudini del pianeta la propria biodiversità agricola e una minima autosufficienza alimentare è un modo concreto per fare i conti con una nuova filosofia di consumo del cibo.
Pamela Pelatelli
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