Le trivellazioni off-shore autorizzate dal Governo italiano al largo delle Isole Tremiti non sarebbero un caso isolato, perché, a quanto pare, è in atto una vera e propria corsa made in Italy alla ricerca del petrolio.
Le trivellazioni off-shore autorizzate dal Governo italiano al largo delle Isole Tremiti non sarebbero un caso isolato, perché, a quanto pare, è in atto una vera e propria corsa “made in Italy” alla ricerca del petrolio.
Secondo le stime del Ministero dello Sviluppo Economico sono ancora recuperabili da mare e terra italiani 129 milioni di tonnellate di petrolio. Ironia della sorte, mentre tutto il mondo guarda con diffidenza al greggio, dopo il disastro del Golfo del Messico, in Italia aumenta la ricerca nel settore, ad ulteriore dimostrazione che, ad oggi, non si è ancora intrapresa con decisione la via dell’incentivazione delle fonti di energia rinnovabile.
È delle scorse settimane, infine, la notizia della partenza di una nave della Shell, che ha il compito di eseguire studi e prospezioni per individuare quello che viene considerato, usando le parole della stessa Shell Italia “un autentico tesoro” che porterebbe l’Italia a confermarsi “il Paese con più idrocarburi dell’Europa continentale”. Peccato che anche in questo caso le attività estrattive mal si combinerebbero con l’Area Marina Protetta delle isole Egadi e con un’economia basata prevalentemente su turismo e pesca.
Le ricerche si andrebbero ad aggiungere, dunque, alle 9 piattaforme marine, per un totale di 76 pozzi, da cui già si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte la costa marchigiana (Civitanova Marche – MC), tre di fronte quella abruzzese (Vasto – CH) e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte il tratto di costa tra Gela e Ragusa. Sulla Terraferma, invece, le aree del Paese interessate dall’estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi e dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d’Agri (Eni e Shell), l‘Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia, per una “capacità estrattiva” italiana complessiva di 4,5 tonnellate di petrolio, pari a circa il 6% dei consumi totali nazionali di petrolio.
Ma la corsa al petrolio è veramente produttiva, è in grado di ridurre la dipendenza energetica dell’ Italia dall’estero. In poche parole, il gioco vale la candela ?
Secondo Legambiente assolutamente no, dato che il nostro Paese consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio all’anno e le nostre riserve consentirebbero una autonomia dal petrolio estero per soli 20 mesi. Inutile, quindi, e dannoso, per l‘ambiente e per le comunità e le economie locali. In italia, inoltre, l’impianto normativo è obsoleto e eventuali disastri come quello del Golfo del Messico non sarebbero neanche adeguatamente risarciti.
A tal proposito Stefano Ciafani, Responsabile scientifico Legambiente nel corso della Tavola Rotonda “La minaccia del petrolio sul futuro sostenibile della Puglia ha dichiarato: “ancora oggi le nostre leggi non hanno risolto il problema del risarcimento in caso di disastro ambientale e inoltre le piattaforme non sono coperte dalle convenzioni internazionali. Ci è sembrato propagandistico il provvedimento preso dal governo italiano a tutela di mare e coste nello schema di decreto di riforma del codice ambientale, approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo”.” Secondo tale schema le attività di ricerca ed estrazione di petrolio verrebbero vietate nella fascia marina di 5 miglia lungo l’intero perimetro costiero nazionale, limite che sale a 12 miglia per le Aree Marine Protette. Al di fuori di queste aree, le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi verrebbero sottoposte a valutazione di impatto ambientale (Via). La norma si applicherebbe anche ai procedimenti autorizzativi in corso.
“Si tratta di un provvedimento dall’efficacia davvero relativa – prosegue Stefano Ciafani -. La norma non si applica infatti a pozzi e piattaforme esistenti. E poi cosa cambierebbe se un incidente avvenisse in un pozzo o una piattaforma localizzata al di là di 5 o 12 miglia dalle coste? Pensate, ad esempio, che se spostassimo la marea nera che sta inquinando il Golfo del Messico nell`Adriatico la sua estensione si spingerebbe da Trieste al Gargano”.
Nel mirino di Legambiente, poi, anche la procedura autorizzativa sa che, nel caso di permessi per eseguire ricerche sul fondale marino, esclude gli Enti Locali dal procedimento, essendo necessario solo il parere statale, quando invece una attività del genere modificherebbe non poco le attività economiche, turistiche e di altro tipo svolte dalle comunità che vivono sul mare. Le facili procedure, dunque, ed i mancato coinvolgimento delle realtà locali, insiema d un costo al barile tornato a livelli importanti, faciliterebbe proprio la proliferazione delle istanze di ricerca e trivellazione, avanzate soprattutto da imprese straniere, che spesso hanno già le proprie maestranze.