Popolazioni indigene: in prima linea contro i cambiamenti climatici, ma per loro niente spazio alla COP21

La Conferenza sul clima (COP21) che si aprirà tra pochi giorni a Parigi e che è considerata un passaggio cruciale per giungere ad un accordo vincolante per l’abbattimento delle emissioni rischia di non tenere conto dei diritti e delle lotte delle popolazioni indigene, che pure sono tra le più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici.

La Conferenza sul clima (COP21) che si aprirà tra pochi giorni a Parigi e che è considerata un passaggio cruciale per giungere ad un accordo vincolante per l’abbattimento delle emissioni rischia di non tenere conto dei diritti e delle lotte delle popolazioni indigene, che pure sono tra le più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici.

In diversi angoli del mondo, le popolazioni indigene vivono ogni giorno sulla propria pelle le conseguenze di fenomeni quali la deforestazione e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, adoperandosi con tutti i mezzi di cui dispongono per difendere i propri territori, dalla cui integrità dipende la sopravvivenza stessa delle loro comunità, oltre che delle loro radici culturali e delle loro tradizioni.

Per questo, gli indigeni svolgono spesso un ruolo fondamentale nella conservazione della natura e della biodiversità nelle regioni in cui vivono: basti pensare ai molteplici sforzi compiuti dalle diverse tribù amazzoniche per proteggere la foresta da chi vorrebbe abbattere gli alberi indiscriminatamente – non solo allevatori e agricoltori desiderosi di espandere pascoli e piantagioni, ma anche narcotrafficanti e società che si occupano di estrazioni minerarie. Il tutto nel silenzio troppo spesso complice delle autorità locali e nazionali, che chiudono più di un occhio di fronte ai taglialegna illegali.

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In America Latina, molti rappresentanti indigeni hanno perso la vita negli ultimi anni, vittime di crimini che, nella maggior parte dei casi, sono rimasti senza colpevoli ma che è più che plausibile ricondurre proprio all’impegno profuso in difesa della foresta e del diritto delle popolazioni amazzoniche a continuare a vivere nei propri territori.

Vi abbiamo raccontato le storie di Ambrosio Vilhalva ed Edwin Chota, due attivisti indigeni assassinati in circostanze mai del tutto chiarite, ma la lista delle vittime è tristemente lunga. Nel solo Brasile, nel 2014 si sono registrate ben 138 uccisioni di indigeni a causa di contrasti dovuti alla terra, facendo segnare un incremento del 130% rispetto al 2013. E situazioni analoghe si sono verificate e continuano a verificarsi anche in altri Paesi della regione amazzonica, quali la Bolivia e il Perù.

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Nonostante omicidi, violenze e intimidazioni di vario genere, la lotta degli indigeni per salvaguardare la terra che abitano da sempre continua: molte tribù, come i Ka’poor, dopo aver constato l’assenza di aiuti e tutele da parte delle autorità, hanno deciso di passare al contrattacco, organizzandosi in pattuglie per presidiare la foresta e utilizzando a questo scopo anche strumenti all’avanguardia, come trappole fotografiche, computer e tracciatori GPS.

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L’impegno degli indigeni sul fronte della tutela delle risorse naturali non è circoscritto ai soli Paesi Latinoamericani: basti pensare alla ferma opposizione degli indigeni Lax Kw’alaams, che vivono al confine tra Canada e Alaska, alla costruzione di un impianto del gruppo Pacific Northwest per la produzione di gas naturale liquefatto sui loro territori. La comunità indigena ha rifiutato all’unanimità un risarcimento di un miliardo di dollari, spiegando che la terra e le tradizioni sono più importanti di qualsiasi cifra. Il messaggio è chiaro: non sarà il denaro a salvarci, se continueremo a distruggere il nostro Pianeta.

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E non bisogna neppure dimenticare le violenze e le repressioni subite dai circa 200 mila indigeni che abitano la valle del fiume Omo, in Etiopia, obbligati ad abbandonare le loro terre e a trasferirsi in riserve istituite dal Governo, per lasciare spazio ad una diga di proporzioni enormi e ad ampie distese di piantagioni industriali. Deportazioni di massa che vanno avanti da anni, nel silenzio dei media.

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Queste storie, che troppo spesso ci raccontano di diritti umani calpestati ma che testimoniano anche un legame profondo con la terra, rischiano di essere del tutto ignorate dalla prossima COP21, che dovrebbe concentrarsi esclusivamente sulle politiche energetiche delle nazioni industrializzate, sorvolando del tutto sulla progressiva depauperazione e distruzioni di intere aree naturali, alcune delle quali di importanza cruciale per la sopravvivenza stessa del nostro Pianeta.

D’altra parte, Survival racconta che solo una piccolissima parte dei Governi che parteciperanno al summit di Parigi ha menzionato i diritti indigeni nelle politiche dedicate alla conservazione e al clima, segno di un disinteresse rischioso nei confronti di determinate tematiche, che mette a repentaglio la possibilità stessa di raggiungere un accordo soddisfacente. Nonostante siano stati esclusi dagli incontri più importanti, molti leader indigeni hanno deciso di essere ugualmente presenti alla COP21, cercando di far sentire la propria voce e quella dei loro popoli.

“La nostra società industrializzata è responsabile della distruzione del mondo naturale e dell’inquinamento atmosferico. I popoli indigeni, invece, si sono dimostrati molto più abili di noi nel prendersi cura dell’ambiente.” – ha dichiarato in proposito Stephen Corry, Direttore generale di Survival International“Per questo, l’arroganza con cui pensiamo che ‘noi’ abbiamo tutte le risposte, mentre estromettiamo i popoli indigeni, è davvero vergognosa. È il momento di ascoltare le voci indigene, e di riconoscere che nella lotta per salvare l’ambiente i partner junior siamo noi.”

La speranza è che ci sia ancora margine per invertire la rotta e che anche le grandi potenze siano disposte, almeno per una volta, ad ascoltare.

Lisa Vagnozzi

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