Nucleare in Italia: tutti gli aspetti da considerare

L'Italia affretta il passo verso l'energia atomica, ma il nucleare è veramente così sicuro e pulito? Tra mappe, cifre e rapporti cerchiamo di fare il punto della situazione, andando a sondare anche l'opinione di chi il nucleare in Italia e nel mondo non lo vuole. Un'analisi tematica per fare chiarezza sul futuro finanziario, energetico e ambientale del Paese.

“L’energia nucleare è la forma più pulita e più sicura di produzione dell’energia ed è il futuro”. (Silvio Berlusconi a La7) A pensarla così, oltre al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, anche Enel che il 3 agosto 2009 ha battezzato assieme alla francese EDF la nuova joint venture per il nucleare nostrano, Sviluppo Nucleare Italia Srl. Il Belpaese affretta il passo verso l’energia atomica, ma il nucleare è veramente così sicuro e pulito?

Tra mappe, cifre e rapporti cerchiamo di fare il punto della situazione, andando a sondare anche l’opinione di chi il nucleare in Italia e nel mondo non lo vuole. Un’analisi tematica per fare chiarezza sul futuro finanziario, energetico e ambientale del Paese.

LA SITUAZIONE EUROPEA

L’attuale situazione europea, esclusa la Russia, vede 59 reattori nucleari attivi, 11 centrali inutilizzate e 1 in costruzione.

Sono 19 i reattori funzionanti nel Regno Unito che coprono il 13% dell’energia elettrica del Paese. 17 in Germania con una copertura del 23%. 8 in Spagna con il 18% di elettricità prodotta. La Francia è in testa con 59 reattori e una copertura del 77%.

L’Italia, ultima classificata, ha 0 centrali, 4 previste e, al momento, 0% di elettricità dal nucleare.

19 reattori per una produzione energetica inferiore al 20%. Ben 59 per raggiungere il 77%.

Per ottenere il 30% dell’elettricità totale dal nucleare in Italia occorrerebbero 20 centrali, una per regione. A dirlo è il Nobel per la Fisica Carlo Rubbia. L’Italia però non è geograficamente adatta a ospitarle tutte. Secondo la mappa diffusa da Greenpeace, tenendo conto dei principali fattori di rischio geomorfologici connessi al cambiamento climatico e alle caratteristiche del territorio italiano, le aree idonee al nucleare si avvicinano allo zero. Il cambiamento del clima e della piovosità hanno posto due questioni: la presenza di acqua sufficiente per la refrigerazione degli impianti e il rischio di allagamento.

L’area del delta del Po ad esempio, che negli anni ’70 era stata considerata idonea al nucleare, non è poi così adeguata come si pensava poiché soggetta in estate alla diminuzione della portata d’acqua e in altre stagioni dell’anno a fenomeni alluvionali. Se dal Po passiamo alle aree costiere subentra un altro fattore di rischio: il fenomeno dell’innalzamento del livello del mare che il nostro Paese non può trascurare. La vulnerabilità delle coste italiane, infatti, è dovuta ai movimenti della terra e al cambiamento atteso sui livelli del mare.

Il nostro è un nucleare a rischio climatico e se ai primi due fattori ne aggiungiamo un terzo, il rischio sismico, i siti risultanti rimangono pochi ovvero la Sardegna, una fascia tra Piemonte e Lombardia e un’area nel Salento brindisino. Siti che, a loro volta, dovranno essere valutati sulla base di fattori ulteriori come la compresenza di altre attività a rischio, la densità di popolazione, le infrastrutture e i collegamenti. Ricordiamoci che per avere il 30% di energia elettrica servono 20 centrali.

QUESTIONE SCORIE

Questione_scorie_Italia

Una volta collocate le centrali, bisognerà trovare le zone atte allo stoccaggio delle scorie. Ad oggi i rifiuti altamente radioattivi nel mondo ammontano a circa 250mila tonnellate, tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivo.

L’Italia ha circa 25mila m³ di rifiuti, 250 tonnellate di combustibile irraggiato, pari al 99% della radioattività presente nel nostro Paese a cui sommare 1.500 m³ di rifiuti annui prodotti da ricerca, medicina e industria e 80 – 90 mila m³ di rifiuti derivanti dallo smantellamento delle 4 centrali e degli impianti del ciclo del combustibile. Dove andranno a finire?

Da una valutazione preliminare condotta nel 1999-2000 dal Gruppo di lavoro sulle condizioni per la gestione in sicurezza dei rifiuti nucleari, le aree potenziali si concentrano tra l’Alto Lazio e buona parte della Toscana, Le Murge pugliesi, la Basilicata e parte della Calabria.

Viene da chiedersi se i cittadini toscani, lucani, pugliesi e calabresi saranno d’accordo con questa cartina.

Ed ecco che sorge il quarto fattore limite al nucleare: l’accettazione sociale. Siamo proprio sicuri che, dopo il referendum del 1987, la popolazione accetterà di buon grado la presenza di una centrale nelle vicinanze della sua città?

Abbiamo visto che l’Italia non è geograficamente adatta ad ospitare le centrali ma, se il governo italiano riuscisse in uno dei suoi noti miracoli e ci ritrovassimo con un reattore a regione, quale sarebbe l’economia legata all’atomo?

Il nucleare non ci darebbe l’indipendenza energetica e il motivo è molto semplice. L’uranio, come petrolio e gas, non è una fonte inesauribile bensì fossile. Questo significa che prima o poi andrà incontro a totale esaurimento. Il Belpaese non è una miniera di uranio anzi, i giacimenti scarseggiano e una volta avviate le centrali saremo costretti ad importarlo. Niente di nuovo per l’economia nazionale.

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E dall’estero le notizie non sono migliori, anche fuori dai confini italiani le riserve sono scarse. Secondo il rapporto di Wwf, Legambiente e Greenpeace le riserve realmente sfruttabili saranno in grado di alimentare i 440 reattori esistenti per altri 40-50 anni, poi più nulla. Non è un caso che lo stesso Rubbia spinga le centrali al torio perché rende di più ed è più abbondante in natura.

E sempre secondo il dossier “l’energia nucleare non è una soluzione” la strada del nucleare andrebbe abbandonata per diverse ragioni tra cui i costi e l’incapacità dell’atomo di competere con il mercato dell’energia liberalizzata.

I COSTI DEL NUCLEARE

Costruire una centrale nucleare richiede tempi molto lunghi, Rubbia parla di 5, 6 o anche 10 anni e un ingente investimento economico, 4, 5 miliardi di euro recuperabili in 40, 50 anni. Realizzazione e gestione degli impianti richiedono costi elevatissimi. Il caso degli Stati Uniti ne è la prova, i 75 reattori costruiti sono costati 145 miliardi di dollari a fronte dei 45 previsti. Più del doppio. Sembra che l’atomo non convenga per le tasche dell’investitore e allora perché fare una scelta finanziaria suicida?

IL MERCATO LIBERALIZZATO

Oltre ad essere un investimento sconveniente, il nucleare non è in grado di competere con il mercato dell’energia liberalizzata. Lo dimostra il caso finlandese di Olkiluoto. La costruzione del reattore iniziò nel 2005 e già nel primo anno si verificarono una serie di problemi tecnici che portarono a dei ritardi. Ritardi di ben 18 mesi accumulati nei primi 16 di lavori e un aumento dei costi di circa 700milioni di euro. Un vero e proprio fallimento.

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Ma c’è chi potrebbe obiettare alla critica mossa da Wwf sostenendo che ora le cose andrebbero diversamente.

Uno studio tedesco dell’Oko-Institut di comparazione dei dati del mercato energetico internazionale con quello nazionale mostra come il prezzo della corrente elettrica non subisca sostanziali variazioni tra la Germania, dove il nucleare è la fonte prima per l’elettricità e i paesi che non usano l’energia atomica.

Quando le centrali tedesche si fermano, per permettere operazioni di manutenzione, l’andamento del prezzo dell’energia non tende ad un incremento. L’analisi dell’istituto di studi ecologici palesa, inoltre, una situazione analoga in Belgio, dove si riscontra che il prezzo della corrente elettrica, pur con un significativo utilizzo del nucleare, è molto elevato.

La Germania nuclearizzata ha già previsto un piano nazionale per il graduale abbandono del nucleare. Annunciata la chiusura di due dei 19 impianti attivi, quello di Biblis e di Brunsbuettel. In controtendenza con le scelte ‘italo – berlusconiane’ la Germania di Angela Merkel ha previsto per il 2021 la totale denuclearizzazione del Paese.

Le principali associazioni ambientaliste italiane, lo stesso Rubbia e una parte dell’opinione pubblica non vedono nel nucleare una risposta sicura al Climate Change. Vediamo il perché.

ANCHE IL NUCLEARE INQUINA

Per ridurre l’effetto sulle emissioni globali del 5% occorrerebbe aprire una nuova centrale ogni 2 settimane da qui al 2030 per una spesa di circa 1000/2000 miliardi di euro e un aumento considerevole dei rischi legati a incidenti, proliferazione nucleare e scorie.

La produzione di energia nucleare è solo apparentemente esente da emissioni di CO2 questo perché gli impianti, per motivi di sicurezza, richiedono enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento. Materiali che per la loro produzione necessitano di carbone e petrolio.

Tenendo conto anche delle altre fasi della filiera nucleare, le emissioni indirette della produzione di un kWh da energia atomica risultano comparabili con quelle del kWh prodotto in una centrale a gas.

L’energia nucleare fornisce solo elettricità ovvero il 15% degli usi finali di energia. Il restante 85% è costituito da carburanti per i trasporti e calore per il riscaldamento e i processi industriali.

Il nucleare potrebbe ridurre solo in piccola parte la nostra dipendenza dai combustibili fossili mentre una reale risposta al problema arriverebbe dalle fonti rinnovabili.

Anche l’uranio rilascia calore ma, per poterlo usare, avremmo bisogno di un grande bacino di utenza, una metropoli, in prossimità della centrale, cosa impossibile per la pericolosità dei siti.

TECNOLOGIA A RILENTO

Se l’innovazione nel fotovoltaico sta marciando a passi lunghi e ben distesi, l’andatura del nucleare è tutt’altro che spedita. Eppure i fondi per il nucleare superano nettamente quelli destinati al rinnovabile.

Se la priorità di investimento italiano diventasse il nucleare, potremmo dire addio a qualsiasi prospettiva di riduzione delle emissioni di CO2 da rinnovabile.

Nucleare e rinnovabile sono due investimenti alternativi, impossibili da portare avanti parallelamente.

Con il nucleare gli obiettivi di efficienza energetica e risparmio si ridurrebbero a zero e questo equivarrebbe ad uscire dall’Europa per lo scenario comunitario del 2020 che prevede il 30% di riduzione delle emissioni di CO2, il 20% di produzione da fonti rinnovabili e il 20% di miglioramento dell’efficienza energetica.

Efficienza impossibile da raggiungere per una ragione di costi. Nella migliore delle ipotesi la prima centrale entrerebbe in funzione tra almeno 10 anni, in ritardo rispetto alle scadenze imposte dall’Unione europea. Scadenze vincolanti che, se disattese, rappresenterebbero un costo per l’Italia.

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SICUREZZA E TERRORISMO

Una tesi pro-nucleare molto diffusa è “Il nucleare di oggi è sicuro grazie alle tecnologie di quarta generazione“. A smentirla il documento “Il nucleare non serve all’Italia“.

Per vedere una centrale di quarta generazione in attività, sempre che gli sviluppi tecnologici attualmente in fase di ricerca avessero esiti positivi, dovremo attendere il 2030. Questo significa che non esiste alcuna possibilità di iniziare oggi un programma di realizzazione di centrali di nuova generazione.

Il Governo italiano, quindi, sta promuovendo un programma di centrali di terza generazione con tutti i problemi irrisolti di gestione, smaltimento delle scorie e di approvvigionamento del sempre più scarso uranio fissile.

Capiamo che sulla sicurezza degli impianti, a 22 anni dal terribile disastro di Chernobyl, non vi sono garanzie e a questi si aggiungono i problemi legati alla contaminazione “ordinaria” ovvero il rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento dell’impianto a cui sono esposti lavoratori e popolazione che vive nei pressi.

E in un periodo storico in cui la minaccia di una guerra nucleare ritorna sulla scena direttamente dall’Iran, si investe nell’atomo.

È necessario rendere inutilizzabile il materiale fissile di scarto per la possibile costruzione di bombe a fronte della minaccia globale del terrorismo internazionale. Gli impianti nucleari, attivi e in costruzione, possono diventare obiettivi sensibili per i terroristi e, producendo scorie dal cui trattamento viene estratto il plutonio, sono fonte di materia prima per la costruzione di armi a testata atomica.

Mentre la Germania sceglie di abbandonare il nucleare entro il 2021 e la Spagna aumenta gli investimenti sul rinnovabile a svantaggio dell’atomo, l’Italia pianifica 4 nuovi siti e dimentica il referendum del 1987.

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